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Racconto inedito in Free Reading per Halloween 2025 IL DANDY GIALLO by Caleb Battiago Roma, Halloween 2025 Pietralata acquario di nebbia e friggitorie, il ventre gonfio di motorini e mignotte, pulsa sotto i gialli rimbalzati dei semafori di notte come una bestia incapace di dormire. Calce e cemento, il tramonto di un autobus – un 211 con la testata rifatta – con la vescica da vacca sacra che perde refrigerante, persiane grigliate da disillusione verde e ladri d’appartamento travestiti da zombie che gettano bastoni insanguinati nel portabagagli di una vecchia Punto: la vecchia del sesto piano ha dimenticato lo Xanax e si è incazzata per la collana di perle e il TV al plasma preso a rate. Avvisi di sgombero e slot machine-astronavi miniaturizzate – LSD a pulsanti – piscio di gatto, incendio d’incenso nella parrocchia, panchine come altari pagani, rosette con la mortadella e mozziconi di uomini coi piedi neri e un’aureola di plastica. Capannoni e pompe funebri – e il Verano più in là – tutti la stessa cosa; fiamme ossidriche, acetilene e bare industriali, cipressi immobili, cera fusa e marmi. Tutto all’ingrosso: anime, paraurti, ricambi, protesi e ammortizzatori, statue di angeli e fontanelle del trapasso. Halloween in periferia, come una febbre; sesso e morte con sconto del 50%. Palazzine strette l’una all’altra come incisivi tra otturazioni di portoni, collier di parabole arrugginite e lenzuola che pendono bianche, bandiere di resa. Vento di tangenziali e sangue denso di carburatori, scooter truccati che sputano fragore come smilzi draghi proletari. Un muro sincero e la bomboletta blu di un poeta metropolitano: DIO HA L’ALZHEIMER e sotto un cazzo moscio alato. Isole di Gratta e Vinci e segni della croce di chi spera in una casa popolare, vicoli intasati di vomito di ricordi e vino novello, infezioni di targhe e baristi cocainomani. Tanti ancora ad aspettare un miracolo del dopoguerra, uno qualsiasi, trascinato da un camion dell’AMA che lampeggia arancione sui rifiuti. E poi lui, Arturo, più magnetico di una pubblicità di reggiseni a balconcino, dandy obeso e pittoresco come un satiro di lamiera, giacca gialla e gardenia nel taschino, pantaloni a quadretti da macellaio vittoriano. Suda profumo – cuoio e liquirizia bruciata – e catrame di misantropia, si trascina lento, la terza gamba d’ebano da gotta rinascimentale con un pneumatico dorato come pomello, ghigno da primario del peccato. Sotto gli occhiali a lenti esagonali – roba fatta a mano per un papa o un dittatore – un sorriso soddisfatto e postumo, come se fosse già morto e avesse deciso di continuare lo stesso, tanto a Roma si può fregare facilmente San Pietro, con le chiavi dell’ultimo cancello al collo a ronfare sotto al culo della Basilica, accecato in un sarcofago con duemila anni di roba sopra. Salnitro, ferro, miliardi di fessure, nemmeno una sveglia analogica. Radio Bernini. Venti passi indietro, un cane – anzi, un continente di tenebra visto al telescopio – pelo nero raggrumato di benzina, respiro di motore in avaria, occhi che succhiano luci. Non è un’ombra distorta del dandy giallo del disprezzo, ha un cuore proprio e tutte le zampe ancora buone. Segue il padrone in punta di unghie… o aspetta di mordere alla prima occasione? La crudeltà sa di vaniglia, polvere di sparo, pecorino di fossa e un bicchiere di gin con una moneta di rame dentro, e l’obbedienza a volte è come una fame, tutto può essere. Tac. Tac. Tac. Il bastone comanda il ritmo, ogni colpo un amen o una bestemmia, attese entrambe come germogli fortunati: qualcuno che crepa, soffre, ammazza, pompa o ficca, qualcuno da solo nel vetriolo della città da sfigurare meglio, da piazzargli uno specchio o una pozzanghera davanti al grugno. Aruspicare e assistere alla rovina umana, collezionarla, farsene sacerdote se possibile; perfezionare la morte, estetica della sofferenza e squarci vari. Il nefasto Rimbaud giallo di quartiere, un fascio di versi nella tasca ancora cucita della giacca – non cerco più paradisi, ma distributori di sigarette che vendano assoluzioni (…) una donna che ha capito tutto, e non serve più – stelle, l’insegna del Bar 77 e un orecchio del cane riflessi nelle lenti esagonali, annusa l’aria sapida: è a caccia anche stanotte. Piazza Santa Maria Consolatrice, serrande abbassate e l’edicola con la Madonna al neon blu e un manto di moscerini impazziti, è quasi vuota; un soffio a mezzanotte, la scia di ragazzini – un pirata antropofago, un fantasma economico di federe, la sposa cadavere incinta di un pallone da pallavolo e una strega lingua nera con scarpe a carrarmato – che curvano dietro il palazzo con sacchi rossi pieni di caramelle e le ultime fragole del mondo buono. E poi bingo: un tossico mascherato da se stesso, la mano tesa per stringere monetine, il cuore buono di chiamare il cane seduto là in fondo – Ehi, bello, vieni qui! – fermo come il dandy che gli si inginocchia davanti per studiarlo, sguardo da polpetta avvelenata, come fosse un cadavere potenziale in jeans e maglietta del Barcellona, autopsia a crudo. La mano che fruga nella tasca destra, un mazzo di banconote legate con un elastico, giallo anche quello; lo tiene in mano come se stesse pesando il mondo, e poi: «Comprati una giacca come la mia, mi ha portato fortuna.» Il tossico stringe tutti quei soldi, si alza come se avesse molle sotto le Nike troppo larghe e corre verso la parrocchia – Don Sergio aveva detto che i miracoli spuntano fuori dal niente, come petrolio profondissimo, tutto vero! – ma poi si blocca, pensa al refettorio che puzza di candeggina e si ficca nel vicolo a destra, dove un’ombra con barba corta e tentacoli che spuntano dal giubbotto di pelle, il tatuaggio di un dado un sulla carotide, aspetta polli e disperati. C’è sempre qualcosa nel suo pozzo, anche per arrivare alle foglie fosforescenti del fondo – Overlife – dove la terapia intensiva non può galleggiare e gli angeli si strozzano per litigarsi l’ultima pasticca. Tac. Tac. Tac. Il Dandy si allontana soddisfatto, l’aria ha un altro sapore adesso, cammina come se avesse già sognato quel momento – tra poco il sangue del disgraziato bollirà – i palazzi e i graffiti lentamente svaniscono, la strada muta pelle come un vecchio pitone e più avanti appare la curva, una piega d’asfalto lucida sfregiata di frenate che costeggia gotica la valle dei ferri vecchi, là sotto: l’Autodemolizione San Michele – ricambi originali, peccati usati – che sussurra zanzare dietro il recinto di lamiere e fari spenti, il piccolo impero del Dandy, un grande confessionale meccanico. Il demiurgo sfasciacarrozze si ferma sul ciglio della curva, si accende teatrale una sigaretta, fumo dal naso come incenso a sacralizzare la mezzanotte, poi chiama il cane con un gesto che nessuno noterebbe: toccarsi l’anello con squadra e compasso. Il grosso animale si avvicina, si fa carezzare il testone e la cicatrice dei denti di un rottweiler da scommesse, e infine solleva il muso quando il padrone sussurra la parola magica: «Adesso, prendi!» Una corsa abbaiando alla notte, verso la sommità della curva come inchiostro spruzzato da un secchio di Pollock, la BMW nera, col cavalcavia ormai dietro gli scarichi e Bruce Springsteen che canta l’ultimo minuto di ‘Perfect World’, schiva la bestia per un pelo, che balza sul cofano sbavando, facendo sgranare gli occhi della coppia all’interno – lei bella come un incipit di Wolfe, i capezzoli in allarme rosso. L’urlo degli pneumatici, l’amen dei pistoni, il trampolino del guardrail e i rimbalzi delle lamiere là sotto, boati e grida sincopate, pioggia di cristalli. Dal cancello dell’autodemolizione il Dandy osserva immobile la scena e il compiersi dell’incidente – numero ventidue – sulla benedetta curva, ara di asfalto per centraline, iniettori, turbocompressori, differenziali… e casuali organi umani. Una mano in tasca, una polpetta di lesso di pollo tra indice e medio, una bocca fedele che l’afferra con la delicatezza di una cortigiana. «Ne sei ghiotto eh? Bravo, ottima scelta con quei magnifici sedili in pelle.» Il tuo browser non supporta la visualizzazione di questo documento. Fai clic qui per scaricare il documento.
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