Racconto integrale 'I Fantasmi di Van Gogh' pubblicato solo nella raccolta di racconti a tiratura limitata (quasi esaurita, disponibili solo tre copie) KIRTI E ALTRE STORIE (2025) di Alessandro Manzetti.
Arles - Café de la Gare «Ma che ti salta in testa, quella ragazza non esiste…», replica Gauguin chiamando la domina del Cafè a rafforzare le sue grasse risate. «Madame Ginoux, dovete sentire questa!» «Non fare l’idiota, ci farà pagare il conto quella…» sibila Van Gogh aggiustandosi il cappello, nascondendosi più che altro; da tempo ha promesso al donnone un ritratto per saldare il dovuto. «Comunque, ti sbagli caro mio, la luce di Arles deve averti accecato… non vedi più la bellezza.» «Questa è buona… dunque, secondo te mi perderei una diciottenne, proprio in bocca a Rue du Bout! Andiamoci ora, amico mio, così potrai mostrarmela. Il quinto bicchiere val bene un bordello» «È questo il tuo problema, bevi troppo Gauguin. Te l’ho detto, apri quelle dannate orecchie: Gaby non è una puttana, ma una musmè!» «Quindi, che accidenti sarebbe?» «Gesù, sei rozzo come le tue croste… significa fanciulla in giapponese, di quelle che lavorano in una casa come cameriera, domestica.» «Oppure in un bordello, ancora intatta come una porcellana, certo… questa storia è strana persino per te. Insomma, che ci farebbe questa diva in quel posto di malaffare, invece di servire ai tavoli di un pregiato cafè?» «Lo sai bene che sarebbe troppo giovane per certi servizi, alla sua età non può essere registrata … e poi non è nemmeno di qui, viene da Mas de Faravelle in Moulès. La famiglia l’ha costretta a trovar lavoro alla casa di tolleranza per pagare spese mediche folli, tutta colpa di un morso!» «La cosa si fa sempre più interessante, anche io morderei carni così dolci e tenere come le decanti, amoroso pazzo.» «Non sto divagando, se è quello che intendi. Non è stato un uomo, ma un cane… ha preso la rabbia poverina. L’hanno dovuta ricoverare al Pasteur…» «A Parigi? Dici sul serio?» «Sì, prima del vaccino che l’ha salvata purtroppo le avevano già rovinato un braccio, cauterizzato con un ferro rovente, roba da barbari. In quel villaggio devono ancora bruciare le streghe…» «Ricapitolando: giovane, bella, aggraziata e con una cicatrice, il morso di una bestia… una musa perfetta, non c’è che dire. Ribadisco, andiamo al bordello e potrò confermarti se esiste davvero o se è l’ennesimo fantasma che ti turba la mente, il che sarebbe penoso… Io non ricordo nessuna cameriera di tali fattezze, altrimenti l’avrei abbozzata a carboncino. Che mi dici del seno?» «Piccolo, come piace a te. Ma dovrai guardare senza rivolgerle la parola… prometti!» «Non dirmi che… non le hai mai detto nulla, dopo tutto il teatro che mi hai ribaltato addosso per giorni. È così?» «Parli sempre troppo Gauguin. C’è un momento per tutto, per un girasole o una danza di bretoni. Per una musmè vale lo stesso!» «Mmm, dunque sarebbe un’opera d’arte, o meglio, il vortice che ti prende prima di mettere assieme i colori. Scommetto che hai scritto di lei a Theo.» «Non sono fatti tuoi, sto parlando con te adesso, ma forse sarebbe meglio mandarti una lettera, il vino ti fa ruotare le parole nello stomaco.» «Sono dimagrito sei chili, amico mio. La dieta di Arles, la ricerca della cazzo di luce… a me ispira più una quaglia arrosto, non sono un asceta come te.» *** Arles - Rue du Bout I due artisti siedono sui divani verdi del bordello, stoffa a rombi con una chiazza di benzina di ghiandola pineale proprio al centro; Cécile danza là davanti – le più belle ginocchia di Arles – con un bicchiere di sangue della Cotie Rotie in mano; il Rodano, che nasce da un cazzo di ghiacciaio, placenta così gelida, è cliente fisso del posto, scalda le sponde sul palazzo – il frontone arancione e le bombe delle mimose – e vibra di gemiti. Van Gogh, scarpe da pecoraio a filo spesso, afferra il braccio dell’amico e lo trascina nella stanza attigua. Gli sussurra qualcosa nell’orecchio, punta l’indice verso l’algida Gaby, immobile su una sedia all’angolo col piccolo seno rassodato dal freddo – ma la vede solo lui. Gauguin strizza gli occhi «Oh, che bel fumeton, rosso», commenta sollevando gli occhi verso il cosciotto di montone appeso al soffitto, «proprio quello che ci vuole, altrimenti stavolta il mio dardo non accontenterà Clarisse, culo indigeno…» «Lei, non la vedi? Mi sfotti bastardo francese…» si infuria Vincent, serrando i pugni e spingendo il compare davanti all’adolescente musa, che sorpresa si poggia le dita sulle labbra fragoline. «Gaby, Gabrielle… dì a questo cieco che esisti.» «Ti stai rendendo ridicolo, questa venere dev’esserti entrata nelle orecchie quando ti sei ficcato dentro Sant’Anna per tre giorni. Ti ho visto come sei tornato, con la fronte dipinta di uova…» «Una musmè in una chiesa cattolica sconsacrata? Ci sono solo lapidi là, tu mescoli continenti, buffone, proprio come i tuoi blu e viola…» Clarisse – pelle di cacao, capelli da istrice – irrompe nella stanza, la gonna bianca e nient’altro – il padre un guardiano di cavalli e il fratello un mediocre baritono. «Henri… mio testone, se hai folgori in corpo andiamo di sopra, la stanza è libera… quella grande.» «Mia cara, qui si parla di fantasmi, devo prima sbrigare la faccenda…» se la ride Gauguin, balzando poi addosso alla puttana per spaventarla, le braccia sollevate a ghermire l’aria. «Se non mi stai a sentire, mi taglio un orecchio, proprio qui davanti a te, anzi… la lingua!» minaccia Van Gogh sfilando un coltello da scuoio dai pantaloni troppo larghi. «Calma, rosso! Non ho perso una parola, ma non vedo nulla, e tu… Clarisse?» «Vedo quello che vuoi, bel testone. Dimmi cosa…» «Beh, se non ho capito male su quella sedia ci sarebbe una leggiadra ragazzina, i capelli raccolti, i capezzoli due fiori di passiflora, piccoli come l’occhio di un tordo, e poi – senti bene – un braccio deturpato da una fiera. Una di voi insomma… anzi, una domestica a quanto pare. Dovrebbe servire caraffe e salsicce, questo è da vedersi. Contate forse un imene intatto in questo posto?» «Non l’ho raccontata così… vaneggi, tu e la Parigi che ti porti in tasca, una lente sifilitica…» scatta Vincent con la lama sotto il collo adesso. «E ha un nome: Gaby! Gabrielle!» «Perché parla di sifilide?» chiede Clarisse con espressione da latte, da spettro dell’est, anzi, di chi uno spettro l’ha appena visto. «Non temere, mia adorata, Vincent parla a sproposito… io piscio ancora sano, l’hai visto mercoledì, no? Comunque, esiste o no la musa del rosso? Ci serve una risposta.» «Vado a chiamare Léna. Le farò raccogliere i capelli, ha ventun’anni, è arrivata la scorsa settimana, penso potrebbe andargli bene.» *** Fa freddo nella stanza di Gauguin alla Casa Gialla – al n. 2 di place Lamartine – l’uomo non riesce a prendere sonno, nonostante Clarisse l’abbia sfiancato. Le storie di fantasmi sono sempre eccitanti. Vincent non gli ha più rivolto la parola, se n’è andato da Rue du Bot – fortunatamente senza tagliarsi niente – e l’hanno visto nei campi dipingere inginocchiato davanti alla tela, come se fosse una madonna del grano. La lingua ce l’ha ancora in bocca, visto che canticchiava qualcosa su una certa ‘Marguerite’ – così ha raccontato il bovaro con sei denti, e Gauguin aveva subito pensato al Faust di Gounod – ed è già qualcosa. Freddo, ma non solo. Un uccellaccio sta sbattendo il becco sulla persiana come un diamine di metronomo. Deve averlo mandato Vincent, amico dei corvi… per vendetta, si dice Gauguin sbuffando e alzandosi dal letto per risolvere la questione. Apre la finestra, e Arles gli pizzica subito il viso con un puntaspilli gelato. «Se vuoi essere spennato, fatti sotto!», sbraita cacciando fuori il capoccione fumante calore, torcendo il collo da una parte all’altra, ma una voce alle spalle gli ghiaccia culo e bretelle della camicia da notte. «Ora mi vedi, pittore?» Gaby, sdraiata sul letto, un pezzo di orecchio tra i denti, si morde il braccio deturpato facendo schizzare fuori latrati di cani furiosi. Sulle pareti, i girasoli dell’amico Vincent non hanno più petali.
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