Ho scritto questo racconto nel 2014, ed è stato pubblicato nel 2016 nella raccolta di racconti 'Kannibalika' (EUS Edizioni), oggi non più in commercio, e non ho ancora voluto ripubblicarlo altrove.
Il pezzo è ispirato da 'The Picture in the House' ('L'Immagine nella Casa') di H.P. Lovecraft, il mio unico omaggio finora al solitario di Providence. L'estratto (poche righe) di 'Regnum Congo' che leggerete all'interno del racconto l'ho tradotto dal latino, e liberamente interpretato, da 'Relatione del Reame Di Congo Et Delle Circonvicine Contrade di Odoardo Lopez il portoghese' di Filippo Pigafetta. Le illustrazioni dei Fratelli De Bry, protagoniste di questa strana storia (e dell'originale pezzo lovecraftiano) ovviamente le ho esaminate personalmente. Buona lettura. REGNUM CONGO ©Caleb Battiago/Alessandro Manzetti Tutti i diritti riservati Liberamente ispirato al racconto ‘The Picture in the house’ di H.P. Lovecraft La pioggia, sempre più stretta, penetra nel ventre del piccolo cimitero di Wilsondale. Lampi, tronchi che galleggiano in un mare di terra nera. Un posto senza più scheletro, senza una solida logica. Foglie affogate, ossa d’acqua, tutto sembra squagliarsi. La mia vecchia Ford è bloccata, azzannata dai denti morbidi del fango. I vermi, aggrappati allo sportello con un lunga cordata, sono arrivati alla maniglia. Sono riusciti ad entrare, hanno acceso la radio. Until the end of the world. Ho fatto una cazzata a uscire dalla Yankee Division con questo tempo. Tutto per trovare mio padre, la sua poltiglia sottoterra, quello che sarà rimasto del vecchio. Forse i suoi due denti d’oro, stelle nel frullato di melma. Il Massachussets è troppo grande per scoprire una vecchia tomba, senza sapere dove cercare. Vent’anni di fango e di deserto, di fotografie sconosciute, di grassi custodi, di un invisibile gracchiare di ombre. Un eterno bianco e nero, su file regolari, tra pozze viola e gialle: fiori marci, disintegrati. Il vomito del tempo. Il cimitero ormai è chiuso, il cancello stretto dalla catena. Le punte arrugginite, il campanello ossidato, le impronte digitali della tristezza. Creste, micron di fantasmi. Ho perso troppo tempo per seguire la mia mappa di illusioni, le tracce del vecchio su questo mondo. Fanculo, non lo trovo da nessuna parte, deve aver camminato tutta la vita senza scarpe, senza piedi. Esisterà davvero la sua tomba? Oggi ho letto cinquecentoventi nomi, cinquecentoventi lapidi. Ormai sono arrivato a centinaia di migliaia, in tanti anni. Conosco tutti gli indirizzi dell’Inferno, tranne uno. Cristo, qui non c’è più nessuno. Il parcheggio di terra è sfregiato dalle sgommate, dalle curve morte di chi è già andato via. Posto di lumache del cazzo. Mi allontano a piedi, spero di incontrare qualcosa di vivo, di acceso. Un passaggio per tornare sulla Yankee, tra l’amato asfalto e le tette giganti dei cartelloni pubblicitari. Monotonia di alberi, le scarpe bagnate, la lingua secca. Una macchia rossa, in fondo. La lascio alle mie spalle: sono le lamiere della mia Ford. Il muro di cinta del cimitero è affondato troppo presto, non si vede un cazzo con questa pioggia. Devo andare avanti. Penso al mio vecchio, come al solito, ai frammenti che mi sono rimasti dentro. Ricordi che puzzano di sigaro, del sudore di fantasmi in canottiera davanti allo specchio. Il pettine nero, la riga da una parte. Un sorriso storto: quella volta non aveva bevuto. L’insolito silenzio di quella mattina, niente grida. Mia madre sul divano con la fronte squarciata, un asciugamano zuppo di sangue. Una bottiglia rotta in testa, lacrime, bestemmie. Il vecchio ne aveva combinata un’altra delle sue, niente di nuovo. Invece no, se n’era andato sul serio quella volta. Ricordi che accendono una vecchia radio: le pantofole trascinate, la frusta della cintura, a volte, e quel tossire e sputare alle cinque di mattina. Le sue raffiche mi facevano sentire al sicuro. Il vecchio era ancora con me, dentro quella casa sgangherata, coi polmoni neri e la faccia rossa. Le orme verdastre della sua schiuma da barba nel lavandino scheggiato, le campane di tutti i round dell’incontro di boxe in TV. Cosce e cartelli, numeri. Frammenti. Devo aver camminato parecchio, le gambe sono sempre più rigide, gelate. Quando penso al vecchio. non mi accorgo più di nulla. Viaggio veloce come un razzo, accelero sempre più fino a schizzare fuori dall’atmosfera, per poi cadere giù. Per svegliarmi, alle cinque di mattina, senza più rumori. Silenzio, nel bagno e nell’anima. Due olmi con la testa fradicia stringono in una morsa una sagoma rettangolare. Qualcosa che ha le finestre accese. Cazzo, quella deve essere una casa, se non sono già impazzito. Qui in mezzo al bosco? Il mio vecchio mi avrebbe preso a calci nel culo per stronzate del genere. Lui leggeva nei miei pensieri. In questo posto di lumache non potrebbe viverci nessuno. Eppure, quella sembra proprio una casa. Mi avvicino, alzo le braccia. Grido: Ehi! Silenzio. Sfioro con le dita il legno marcio della porta, la crosta della resina. Accosto l’orecchio, non si sente niente. Zero rumori, zero anime in moto. La colla gialla del silenzio, appiccicosa, mi resta sul collo, sulla guancia. Busso con decisione, più volte, anche un sordo mi sentirebbe. Cristo, apri questa cazzo di porta! Un telefono, un asciugamano e sarei a posto. Spingo la porta, si apre scricchiolando. No, non sono i miei denti, anche se ormai tremo come un frullatore. Un piccolo ingresso, due stanze sui lati, una scala che porta al piano superiore. Ehi! C’è qualcuno? La mia voce rimbalza sul logoro divano del salotto, a sinistra. Vecchie molle la lanciano in alto, verso il caminetto. Cenere, budella di legno, silenzio. Mi risponde solo il ticchettio dell’orologio. Lui, lassù, se ne fotte della pioggia, dei lampi, dello strano rumore delle mie scarpe bagnate. A ogni passo penso di aver schiacciato un grosso rospo. Squash. La stanza è spoglia, arredata con pochi mobili, rozzi ed essenziali. Da un tavolo massiccio spuntano incerte torri di libri antichi con la copertina in pelle, carte, illustrazioni e altra roba. Tutto in piedi sull’orlo dell’equilibrio, gli spigoli e la polvere sostengono le architetture di carta, digrignando i denti ai cavi della gravità che cercano di tirare verso il pavimento. Mi avvicino, stupito. Esploro quell’inatteso Eldorado, volando in cerchio come una mosca. Una Bibbia del XVIII secolo dalla pancia gonfia, una copia del Pilgrim’s Progress, illustrata con grottesche incisioni, sbavate dall’umidità, le pagine rosicchiate del Magnalia Christi di Cotton Mather. Qui in mezzo al bosco? Questa roba? Da non crederci. Forse non sono mai uscito davvero da quel cancello, dal cimitero di fango di Wilsondale. Quel figlio di puttana del custode, il maledetto sordo, deve avermi sfondato il cranio col suo badile. Mi guardava storto fin dall’inizio. Gente che non vuole forestieri tra le palle, che ha pronte delle fosse speciali per i curiosi. Lunghe e corte, qualsiasi dimensione e misura. I turisti dei cimiteri, così li chiamano. Vai a spiegare la storia del mio vecchio, che non ricordo più neanche io. Cazzo, questa è grossa! Il Regnum Congo di Pigafetta! Corazza di pelle e fermagli di metallo, le stravaganti illustrazioni dei fratelli De Bry. Affondo le mani, stavolta: sfoglio il libro eccitato. Le pagine frusciano: Francoforte, data di pubblicazione 1598. Davvero strano questo Inferno, con una biblioteca così ricca e affascinante. Forse ognuno di noi materializza le stanze dell’altrove assecondando le proprie passioni, le abitudini. Se è davvero così, l’Inferno dove è rinchiuso il mio vecchio deve essere attrezzato con un bel tavolo da biliardo, un bar ben assortito e un paio di puttane sedute, in attesa di lavorare. Calze rotte, gioielli falsi, pesanti e scintillanti. Profumi di mango e di albicocche decomposte. Il mio, di Inferno, non poteva che essere questo, come lo vedo adesso. I libri, i miei amici silenziosi che non bevono, che non sputano pezzi di polmoni. Che non ti abbandonano mai. Riprendo a immergermi nel Regnum Congo, senza accorgermi che finalmente ha smesso di piovere. Amano la carne umana, come noi gustiamo quella degli animali, mangiano i nemici che hanno ucciso in battaglia, li vendono come schiavi, se possono ottenere un buon prezzo, altrimenti li consegnano al macellaio che li taglia a pezzi e poi li vende arrostiti o bolliti. Un fatto notevole nella storia di questo popolo è rappresentato dal fatto che quando vogliono dimostrare il proprio coraggio, e il disprezzo della propria vita, ritengono sia un grande onore offrirsi ai propri principi, come fedeli vassalli, per essere macellati. Offrono se stessi oppure i propri schiavi, quando sono ingrassati, per farli uccidere e mangiare. Molte popoli mangiano carne umana, come nelle Indie Orientali, in Brasile e altrove, ma divorare la carne dei propri nemici, amici e parenti, è una cosa che non ha eguali, se non tra le tribù degli Anzique.* Più che le abitudini gastronomiche degli Anzique, descritte da Pigafetta, sono le illustrazioni dei fratelli De Bry a gelarmi le palle. La tavola XII, la macelleria. Tranci di uomo appesi alle corde: braccia, cosce, crotali di budella attorcigliati. Grossi vasi colmi di teste e busti sfondati, immersi in un liquido giallo, denso. Uno dei due macellai apre un coperchio, mostra la merce bollita. Un Anzique, col culo di fuori e penne nere tra i capelli, si sporge per guardare il contenuto. Immerge un dito, assaggia il brodo di uomo. L’altro addetto del mattatoio indigeno, con una stella a sei punte che ciondola sul petto, si occupa della carne arrostita. Affonda il coltello, prepara altri spiedini. Sulla sua destra spuntano decine di canne con un boccone sulla punta. Sembra carne bianca quella che lavora, corpi occidentali. Il gruppo di indigeni si stringe verso il bancone di legno, allungano le mani, sono affamati. Barattano i propri oggetti per mangiare. Una donna grassa, con le tette sgonfie che coprono l’ombelico e la faccia pitturata da tigre, trascina via un sacco. Lo sfondo è riempito da una collina squadrata, la cima tagliata di netto. La terra è decorata di ossa: salite di teschi e di tibie, macabri orti di resti umani dalla forma circolare. L’allevamento, la roba ancora viva, è in una gabbia, a fianco del mattatoio. Si vendono uomini interi, per chi vuole, ancora urlanti e parlanti. Non sarà difficile tirare il collo a quei disgraziati, tritarli per un allegro banchetto. L’indigeno di guardia spinge una lancia verso la folla, non lascia avvicinare le sue vacche umane. Deve essere uno dei capi, le sue penne sono lunghe e colorate. Dal viso color argilla spuntano occhi troppo grandi. Lo sguardo a trecento gradi di una tarantola, di un evoluto predatore, di un demone. Nella confusione si calpestano fegati, bistecche di polmoni e pezzi di altri organi ormai irriconoscibili. Motori spenti, carburante rosso sparso ovunque. Un gran casino. Torno continuamente alla magnetica tavola XII, alla macelleria. Gli Anzique si sono accorti della mia presenza, mi guardano minacciosi dalla loro rettangolare finestra d’Africa. Sono vicini, sono veri. Potrebbero afferrarmi per un braccio, trascinarmi dentro. Assaggiarmi e fare il prezzo, prima di mettermi nella gabbia. Finirò bollito o arrostito? Un rumore di passi dalla stanza di sopra. Cazzo: non sono solo. Eppure gli indigeni dalle formidabili mascelle sono ancora chiusi nel libro. Altri passi, più chiari e pesanti, sulle scale. Non mi resta che aspettare il padrone di casa, chiunque esso sia. Il Regnum Congo resta aperto sulla tavola XII. Si mostra una strana donna, grassa e possente, con uno sguardo d’aquila. Fianchi da rinoceronte, collo e caviglie impressionanti, forti, solide. Le labbra enormi, i capelli neri legati, è scalza. La gigantessa si avvicina, si sistema il logoro vestito rosso schiacciandoci dentro le grosse tette sbordate. Mi sorride, mi fa cenno di accomodarmi sul divano. Si muove pesante verso la finestra. «Finalmente ha smesso di piovere» La sua voce è profonda e orridamente sensuale. Avrà cinquant’anni, non è certo bella, è solo una grande pandemia di carne, un’esasperazione di tessuti. «Non viene più nessuno da queste parti, una volta era diverso» Si siede accanto a me. Mi osserva: sono completamente fradicio. I suoi occhi da vitello si soffermano sulle mie scarpe infangate, poi salgono verso i pantaloni. Orbite che peseranno cinque chili l’una, le sento addosso. Mi stringo nel mio cappotto, torno a sentire freddo. «Davvero un brutto temporale, vero? Capita spesso, qui. La pioggia.» L’odore della sua pelle è forte, penetrante, famigliare. Mi ricorda il fiato acido del sudore di mio padre. Esalazioni di ricordi, di pozzi di metano alieni, di frammenti senza tomba. Sono a disagio, vorrei andarmene, ma ho bisogno di usare il telefono della gigantessa. Sto per chiedere, ma la donna mi anticipa, seccandomi le parole in bocca. «Ti serve qualcosa di caldo. Aspettami, torno subito.» Guardo quell’enorme culo allontanarsi, il tessuto che tira, che fatica a contenere le masse di quei glutei tellurici. Cammina curva, come le persone troppo alte. Due metri almeno, cazzo, forse di più. Da dove è uscita fuori una donna del genere? Mi alzo, vado alla finestra, spero di veder spuntare fuori qualcuno da quella boiata di fango e di nulla. Ma la strada è lontana, questo è il regno delle lumache e delle gigantesse, a quanto pare. Un lampo, subito seguito dal suo tamburo sfondato. Riprende a piovere. I tanti chili della donna tornano in salotto, insieme a un vassoio troppo piccolo. Non mi è mai piaciuto il tè. Fanculo, meglio accontentare la gigantessa. Sorrido come se mi avessero arpionato sul groppone. Mi siedo, sorseggio quella merda bollente. Non mi toglie gli occhi di dosso. I suoi denti mordono ritmicamente le labbra, somigliano alla fica di una vacca. Pandemia di porpora. Le tette balzano sempre più fuori, la grassa troia lo ha fatto apposta, ha calato le spalline del vestito per farmi ammirare il décolleté da balena. Un Gesù Cristo d’argento soffoca, là in mezzo. Meglio deviare l’attenzione verso qualcos’altro, prima che la padrona di casa mi salti addosso. Saranno anni che non chiava, troppo caro il prezzo per un tè di merda. Riesco ad aprire bocca, finalmente. «Dove hai trovato quella roba? Sono libri molto rari.» La gigantessa tira un respiro pesante, un vortice, schiaccia la schiena sulla spalliera del divano e mi risponde annoiata. Non è quello l’argomento che le interessa. «Ebenezer, un amico. Ha lavorato anni su un mercantile, ha girato il mondo. Un collezionista di stranezze, ogni volta che veniva a trovarmi mi portava un regalo.» Si alza, afferra il Regnum Congo e torna a sedersi, sempre più vicina. Le sue corde vocali vibrano sulle radici, sputando fuori qualcosa di simile a un sussurro. La bocca si muove modulando suoni marci. Il suo sudore si mescola al profumo di viola che si è sparata addosso. L’odore di un cimitero d’estate, di atomi di un macabro agosto, fusi sulle lapidi bollenti. La tavola XII dei fratelli De Bry, il libro si apre sempre in quel punto. La macelleria Anzique si anima ancora una volta. Le dita tozze della gigantessa accarezzano i disegni, le sfumature di sangue, le sezioni. Quella scena orribile sembra eccitarla. Insiste, frega con le unghie affilate quei pezzi di corpi umani che penzolano dalle corde, co leggere inclinazioni che fanno immaginare il vento. Il lento respiro dell’Africa. Oppure è lei a far oscillare la carne, manovrandola con i polpastrelli. Sono confuso, la maledetta illustrazione si trasforma in un imbuto, la mia mente cola lentamente dentro quella follia. Una goccia di sangue, di quello vero, si schianta al centro della pagina. Proprio sulla faccia del macellaio che prepara gli spiedini d’uomo. Cazzo, la pioggia non è rossa. Sollevo gli occhi verso il soffitto, una grande macchia rossa, irregolare, si allarga sempre più. Gronda sangue fresco, altre gocce sono pronte al salto, trattenute da sottili filamenti viola. Le immagini diventano sfocate, cosa cazzo mi ha fatto bere la grassa troia? Buio, la sensazione di qualcosa di pesante che mi schiaccia il petto, perdo i sensi. Dunque è tutto vero, sono all’Inferno da ore, ormai. La gigantessa che mi offre il tè in una casa inesistente, prima di spedirmi dentro, tra le fiamme. Una strana guardiana dell’aldilà, la grassona. Ora incontrerò il mio vecchio, qui non potrà certo scappare. Ho finito di consumare la mia vecchia Ford tra le strade di polvere del Massachussets. Tornano improvvisamente gli odori, i rumori. Occhi bovini che mi fissano, una bocca insanguinata che mi bacia. Non sono nel mio appartamento all’Inferno, ma nel letto della gigantessa. I pensieri si sono riaccesi, ma non riesco a muovermi. Sono nudo, come la padrona di casa. Una grossa tetta mi sbatte in faccia, la mia amante si è voltata: ora ho sulla faccia il suo enorme culo che balla come un budino di vaniglia. Non riesco a respirare altro che la sua carne trionfante, i suoi umori che mi colano sul collo, sul petto. Cosa cazzo fa? Me lo sta succhiando? Non sento nulla: piacere, dolore, disgusto, nulla. Capisco quello che mi sta facendo solo quando si mostra il suo profilo massiccio: si è rialzata dal mio ventre, dove era affondata con la faccia. Tra i denti ha pezzi di me, roba morbida, non riesco a capire cosa mastica. Dal mento le cola sangue. Si succhia le dita e scende di nuovo a lavorare sul mio ventre. Il suo culo che danza è la mia porta dell’Inferno. * Nota: estratto, liberamente interpretato e tradotto, da “Relatione del Reame Di Congo Et Delle Circonvicine Contrade di Odoardo Lopez il portoghese” di Filippo Pigafetta
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