Cover Reveal e Apertura Preordini: La raccolta di racconti e poesie dark I SOGNI DEL RE NERO3/31/2020 In uscita a fine Aprile I SOGNI DEL RE NERO - Cristiano Saccoccia Dark Edition' , un'altra Edizione Collection Speciale di mie opere (racconti che non fanno parte del ciclo 'narakiano', tra cui alcuni inediti e pezzi non più reperibili sul mercato, due opere scritte assieme a Paolo Di Orazio e una serie di poesie dark tradotte in italiano per la prima volta) fatta realizzare da un collezionista, a tiratura extra-limitata di 36 copie, della quale sono acquistabili sullo Store solo 25 copie (le altre sono di appannaggio del collezionista). La raccolta contiene mieie racconti (20) che non fanno parte del ciclo 'narakiano', tra cui alcuni inediti e pezzi non più reperibili sul mercato, due opere scritte assieme a Paolo Di Orazio e una serie di poesie dark (19) tradotte in italiano per la prima volta, selezionate da 6 raccolte di poesie pubblicate in inglese all'estero.
Il volume è impreziosito da un inserto a colori (6 tavole) illustrato da Stefano Cardoselli, con copertina flessibile con alette e sovraccoperta, e copie firmate da me. Preordina il libro sullo Store Independent Legions Ecco l'elenco delle opere contenute nella raccolta: Racconti: NARIKO (Inedito); IL RE CHE DORME; CONTRALIA BLUES; BY THE SEA; INTERNO 1; L’INFERNO DI CAPELLI LUNGHI; MALANIMA; KIRTI (Inedito); MICTLAN; IL SACCO (scritto con Paolo Di Orazio); LA GEMMA DI BANDIT QUEEN; REGNUM CONGO; MIDNIGHT BABY – HORROR LOLITA (novella); IL PESCE DI FERRO; VERSO IL MONTE MERU; DEADWOOD; L’UOMO CHE MANGIAVA FIORI; HANS e GRETA (scritto con Paolo Di Orazio); LA GABBIA D’ORO; DARK CALIPSO. *Parte di questi racconti sono apparsi sulle raccolte dell'autore 'Kannibalika' e/o 'Il Giardino delle Delizie', libri entrambi attualmente fuori commercio. Poesie: IL RE NERO (inedita in tutte le lingue); EUGENE IL PIROMANE (inedita in Italiano); IO SONO IL FUOCO (inedita in Italiano); KOO-O; BLUE GRACE (inedita in Italiano); LA TOMBA DELLA TRIPLA VENERE (inedita in Italiano); ROUTE 66 (inedita in Italiano); BLACK SPRING (inedita in Italiano); MISS SAIGON (inedita in Italiano); L’UOMO CHE SI CREDEVA UN RE (inedita in Italiano); HOLY DIVER (inedita in Italiano); IL CANALE (inedita in tutte le lingue, in uscita sul prossimo numero del Magazine Weird Tales); LA RAGAZZINA DI CALCUTTA (inedita in Italiano); IL CIRCO MORTO; IL MAESTRO DEL DOLORE (inedita in Italiano); IL VECCHIO SERPENTE (inedita in Italiano); PEZZI DI EDEN; L’ATTESA (inedita in Italiano); LO SPECCHIO DEL RE (inedita in tutte le lingue). * Le poesie, delle quali tre inedite in tutte le lingue e tredici mai pubblicate in Italiano, sono selezionate dalle seguenti raccolte finaliste e/o vincitrici dei premi internazionali Bram Stoker Award, Elgin Award e Rysling Award: 'Venus Intervention', 'Eden Uderground', 'Sacrificial Nights', 'No Mercy', 'War' e 'The Place of Broken Things' :
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Independent Legions ha rivelato la copertina, e aperto i preordini, per la graphic novel KIND OF RED, soggetto mio, sceneggiatura scritta assieme a Stefano Cardoselli, che illustrerà anche l'opera, in uscita a Ottobre 2020, in Italiano e Inglese. Preordina il libro sullo Store Independent Legions.
Sinossi e descrizione dell'opera: Un musicista jazz, imprigionato in casa da anni, senza più suonare la sua tromba nemmeno per un momento, vittima della droga e della depressione, di un oscuro abisso che l'ha ingoiato, è ossessionato dalle psichedeliche delizie di piacere e dolore offertegli dal conturbante demone che gli è sempre accanto, Vanilla. Si tratta solo di un'ostinata, infinita allucinazione? É lei la catena, con quel suo caratteristico profumo di vaniglia, oppure rappresenta la liberazione? Edizione Collection a tiratura limitata (299 copie) e numerata, copertina flessibile con bandelle, formato 17x24, interni in bianco e nero, 66 tavole, 75 pagine. Collana: High Voltage. Serie 'Dark Muses' Albo nr. 1 Illustrazione di copertina e di quarta di Stefano Cardoselli. Ho scritto questo racconto nel 2014, ed è stato pubblicato nel 2016 nella raccolta di racconti 'Kannibalika' (EUS Edizioni), oggi non più in commercio, e non ho ancora voluto ripubblicarlo altrove.
Il pezzo è ispirato da 'The Picture in the House' ('L'Immagine nella Casa') di H.P. Lovecraft, il mio unico omaggio finora al solitario di Providence. L'estratto (poche righe) di 'Regnum Congo' che leggerete all'interno del racconto l'ho tradotto dal latino, e liberamente interpretato, da 'Relatione del Reame Di Congo Et Delle Circonvicine Contrade di Odoardo Lopez il portoghese' di Filippo Pigafetta. Le illustrazioni dei Fratelli De Bry, protagoniste di questa strana storia (e dell'originale pezzo lovecraftiano) ovviamente le ho esaminate personalmente. Buona lettura. REGNUM CONGO ©Caleb Battiago/Alessandro Manzetti Tutti i diritti riservati Liberamente ispirato al racconto ‘The Picture in the house’ di H.P. Lovecraft La pioggia, sempre più stretta, penetra nel ventre del piccolo cimitero di Wilsondale. Lampi, tronchi che galleggiano in un mare di terra nera. Un posto senza più scheletro, senza una solida logica. Foglie affogate, ossa d’acqua, tutto sembra squagliarsi. La mia vecchia Ford è bloccata, azzannata dai denti morbidi del fango. I vermi, aggrappati allo sportello con un lunga cordata, sono arrivati alla maniglia. Sono riusciti ad entrare, hanno acceso la radio. Until the end of the world. Ho fatto una cazzata a uscire dalla Yankee Division con questo tempo. Tutto per trovare mio padre, la sua poltiglia sottoterra, quello che sarà rimasto del vecchio. Forse i suoi due denti d’oro, stelle nel frullato di melma. Il Massachussets è troppo grande per scoprire una vecchia tomba, senza sapere dove cercare. Vent’anni di fango e di deserto, di fotografie sconosciute, di grassi custodi, di un invisibile gracchiare di ombre. Un eterno bianco e nero, su file regolari, tra pozze viola e gialle: fiori marci, disintegrati. Il vomito del tempo. Il cimitero ormai è chiuso, il cancello stretto dalla catena. Le punte arrugginite, il campanello ossidato, le impronte digitali della tristezza. Creste, micron di fantasmi. Ho perso troppo tempo per seguire la mia mappa di illusioni, le tracce del vecchio su questo mondo. Fanculo, non lo trovo da nessuna parte, deve aver camminato tutta la vita senza scarpe, senza piedi. Esisterà davvero la sua tomba? Oggi ho letto cinquecentoventi nomi, cinquecentoventi lapidi. Ormai sono arrivato a centinaia di migliaia, in tanti anni. Conosco tutti gli indirizzi dell’Inferno, tranne uno. Cristo, qui non c’è più nessuno. Il parcheggio di terra è sfregiato dalle sgommate, dalle curve morte di chi è già andato via. Posto di lumache del cazzo. Mi allontano a piedi, spero di incontrare qualcosa di vivo, di acceso. Un passaggio per tornare sulla Yankee, tra l’amato asfalto e le tette giganti dei cartelloni pubblicitari. Monotonia di alberi, le scarpe bagnate, la lingua secca. Una macchia rossa, in fondo. La lascio alle mie spalle: sono le lamiere della mia Ford. Il muro di cinta del cimitero è affondato troppo presto, non si vede un cazzo con questa pioggia. Devo andare avanti. Penso al mio vecchio, come al solito, ai frammenti che mi sono rimasti dentro. Ricordi che puzzano di sigaro, del sudore di fantasmi in canottiera davanti allo specchio. Il pettine nero, la riga da una parte. Un sorriso storto: quella volta non aveva bevuto. L’insolito silenzio di quella mattina, niente grida. Mia madre sul divano con la fronte squarciata, un asciugamano zuppo di sangue. Una bottiglia rotta in testa, lacrime, bestemmie. Il vecchio ne aveva combinata un’altra delle sue, niente di nuovo. Invece no, se n’era andato sul serio quella volta. Ricordi che accendono una vecchia radio: le pantofole trascinate, la frusta della cintura, a volte, e quel tossire e sputare alle cinque di mattina. Le sue raffiche mi facevano sentire al sicuro. Il vecchio era ancora con me, dentro quella casa sgangherata, coi polmoni neri e la faccia rossa. Le orme verdastre della sua schiuma da barba nel lavandino scheggiato, le campane di tutti i round dell’incontro di boxe in TV. Cosce e cartelli, numeri. Frammenti. Devo aver camminato parecchio, le gambe sono sempre più rigide, gelate. Quando penso al vecchio. non mi accorgo più di nulla. Viaggio veloce come un razzo, accelero sempre più fino a schizzare fuori dall’atmosfera, per poi cadere giù. Per svegliarmi, alle cinque di mattina, senza più rumori. Silenzio, nel bagno e nell’anima. Due olmi con la testa fradicia stringono in una morsa una sagoma rettangolare. Qualcosa che ha le finestre accese. Cazzo, quella deve essere una casa, se non sono già impazzito. Qui in mezzo al bosco? Il mio vecchio mi avrebbe preso a calci nel culo per stronzate del genere. Lui leggeva nei miei pensieri. In questo posto di lumache non potrebbe viverci nessuno. Eppure, quella sembra proprio una casa. Mi avvicino, alzo le braccia. Grido: Ehi! Silenzio. Sfioro con le dita il legno marcio della porta, la crosta della resina. Accosto l’orecchio, non si sente niente. Zero rumori, zero anime in moto. La colla gialla del silenzio, appiccicosa, mi resta sul collo, sulla guancia. Busso con decisione, più volte, anche un sordo mi sentirebbe. Cristo, apri questa cazzo di porta! Un telefono, un asciugamano e sarei a posto. Spingo la porta, si apre scricchiolando. No, non sono i miei denti, anche se ormai tremo come un frullatore. Un piccolo ingresso, due stanze sui lati, una scala che porta al piano superiore. Ehi! C’è qualcuno? La mia voce rimbalza sul logoro divano del salotto, a sinistra. Vecchie molle la lanciano in alto, verso il caminetto. Cenere, budella di legno, silenzio. Mi risponde solo il ticchettio dell’orologio. Lui, lassù, se ne fotte della pioggia, dei lampi, dello strano rumore delle mie scarpe bagnate. A ogni passo penso di aver schiacciato un grosso rospo. Squash. La stanza è spoglia, arredata con pochi mobili, rozzi ed essenziali. Da un tavolo massiccio spuntano incerte torri di libri antichi con la copertina in pelle, carte, illustrazioni e altra roba. Tutto in piedi sull’orlo dell’equilibrio, gli spigoli e la polvere sostengono le architetture di carta, digrignando i denti ai cavi della gravità che cercano di tirare verso il pavimento. Mi avvicino, stupito. Esploro quell’inatteso Eldorado, volando in cerchio come una mosca. Una Bibbia del XVIII secolo dalla pancia gonfia, una copia del Pilgrim’s Progress, illustrata con grottesche incisioni, sbavate dall’umidità, le pagine rosicchiate del Magnalia Christi di Cotton Mather. Qui in mezzo al bosco? Questa roba? Da non crederci. Forse non sono mai uscito davvero da quel cancello, dal cimitero di fango di Wilsondale. Quel figlio di puttana del custode, il maledetto sordo, deve avermi sfondato il cranio col suo badile. Mi guardava storto fin dall’inizio. Gente che non vuole forestieri tra le palle, che ha pronte delle fosse speciali per i curiosi. Lunghe e corte, qualsiasi dimensione e misura. I turisti dei cimiteri, così li chiamano. Vai a spiegare la storia del mio vecchio, che non ricordo più neanche io. Cazzo, questa è grossa! Il Regnum Congo di Pigafetta! Corazza di pelle e fermagli di metallo, le stravaganti illustrazioni dei fratelli De Bry. Affondo le mani, stavolta: sfoglio il libro eccitato. Le pagine frusciano: Francoforte, data di pubblicazione 1598. Davvero strano questo Inferno, con una biblioteca così ricca e affascinante. Forse ognuno di noi materializza le stanze dell’altrove assecondando le proprie passioni, le abitudini. Se è davvero così, l’Inferno dove è rinchiuso il mio vecchio deve essere attrezzato con un bel tavolo da biliardo, un bar ben assortito e un paio di puttane sedute, in attesa di lavorare. Calze rotte, gioielli falsi, pesanti e scintillanti. Profumi di mango e di albicocche decomposte. Il mio, di Inferno, non poteva che essere questo, come lo vedo adesso. I libri, i miei amici silenziosi che non bevono, che non sputano pezzi di polmoni. Che non ti abbandonano mai. Riprendo a immergermi nel Regnum Congo, senza accorgermi che finalmente ha smesso di piovere. Amano la carne umana, come noi gustiamo quella degli animali, mangiano i nemici che hanno ucciso in battaglia, li vendono come schiavi, se possono ottenere un buon prezzo, altrimenti li consegnano al macellaio che li taglia a pezzi e poi li vende arrostiti o bolliti. Un fatto notevole nella storia di questo popolo è rappresentato dal fatto che quando vogliono dimostrare il proprio coraggio, e il disprezzo della propria vita, ritengono sia un grande onore offrirsi ai propri principi, come fedeli vassalli, per essere macellati. Offrono se stessi oppure i propri schiavi, quando sono ingrassati, per farli uccidere e mangiare. Molte popoli mangiano carne umana, come nelle Indie Orientali, in Brasile e altrove, ma divorare la carne dei propri nemici, amici e parenti, è una cosa che non ha eguali, se non tra le tribù degli Anzique.* Più che le abitudini gastronomiche degli Anzique, descritte da Pigafetta, sono le illustrazioni dei fratelli De Bry a gelarmi le palle. La tavola XII, la macelleria. Tranci di uomo appesi alle corde: braccia, cosce, crotali di budella attorcigliati. Grossi vasi colmi di teste e busti sfondati, immersi in un liquido giallo, denso. Uno dei due macellai apre un coperchio, mostra la merce bollita. Un Anzique, col culo di fuori e penne nere tra i capelli, si sporge per guardare il contenuto. Immerge un dito, assaggia il brodo di uomo. L’altro addetto del mattatoio indigeno, con una stella a sei punte che ciondola sul petto, si occupa della carne arrostita. Affonda il coltello, prepara altri spiedini. Sulla sua destra spuntano decine di canne con un boccone sulla punta. Sembra carne bianca quella che lavora, corpi occidentali. Il gruppo di indigeni si stringe verso il bancone di legno, allungano le mani, sono affamati. Barattano i propri oggetti per mangiare. Una donna grassa, con le tette sgonfie che coprono l’ombelico e la faccia pitturata da tigre, trascina via un sacco. Lo sfondo è riempito da una collina squadrata, la cima tagliata di netto. La terra è decorata di ossa: salite di teschi e di tibie, macabri orti di resti umani dalla forma circolare. L’allevamento, la roba ancora viva, è in una gabbia, a fianco del mattatoio. Si vendono uomini interi, per chi vuole, ancora urlanti e parlanti. Non sarà difficile tirare il collo a quei disgraziati, tritarli per un allegro banchetto. L’indigeno di guardia spinge una lancia verso la folla, non lascia avvicinare le sue vacche umane. Deve essere uno dei capi, le sue penne sono lunghe e colorate. Dal viso color argilla spuntano occhi troppo grandi. Lo sguardo a trecento gradi di una tarantola, di un evoluto predatore, di un demone. Nella confusione si calpestano fegati, bistecche di polmoni e pezzi di altri organi ormai irriconoscibili. Motori spenti, carburante rosso sparso ovunque. Un gran casino. Torno continuamente alla magnetica tavola XII, alla macelleria. Gli Anzique si sono accorti della mia presenza, mi guardano minacciosi dalla loro rettangolare finestra d’Africa. Sono vicini, sono veri. Potrebbero afferrarmi per un braccio, trascinarmi dentro. Assaggiarmi e fare il prezzo, prima di mettermi nella gabbia. Finirò bollito o arrostito? Un rumore di passi dalla stanza di sopra. Cazzo: non sono solo. Eppure gli indigeni dalle formidabili mascelle sono ancora chiusi nel libro. Altri passi, più chiari e pesanti, sulle scale. Non mi resta che aspettare il padrone di casa, chiunque esso sia. Il Regnum Congo resta aperto sulla tavola XII. Si mostra una strana donna, grassa e possente, con uno sguardo d’aquila. Fianchi da rinoceronte, collo e caviglie impressionanti, forti, solide. Le labbra enormi, i capelli neri legati, è scalza. La gigantessa si avvicina, si sistema il logoro vestito rosso schiacciandoci dentro le grosse tette sbordate. Mi sorride, mi fa cenno di accomodarmi sul divano. Si muove pesante verso la finestra. «Finalmente ha smesso di piovere» La sua voce è profonda e orridamente sensuale. Avrà cinquant’anni, non è certo bella, è solo una grande pandemia di carne, un’esasperazione di tessuti. «Non viene più nessuno da queste parti, una volta era diverso» Si siede accanto a me. Mi osserva: sono completamente fradicio. I suoi occhi da vitello si soffermano sulle mie scarpe infangate, poi salgono verso i pantaloni. Orbite che peseranno cinque chili l’una, le sento addosso. Mi stringo nel mio cappotto, torno a sentire freddo. «Davvero un brutto temporale, vero? Capita spesso, qui. La pioggia.» L’odore della sua pelle è forte, penetrante, famigliare. Mi ricorda il fiato acido del sudore di mio padre. Esalazioni di ricordi, di pozzi di metano alieni, di frammenti senza tomba. Sono a disagio, vorrei andarmene, ma ho bisogno di usare il telefono della gigantessa. Sto per chiedere, ma la donna mi anticipa, seccandomi le parole in bocca. «Ti serve qualcosa di caldo. Aspettami, torno subito.» Guardo quell’enorme culo allontanarsi, il tessuto che tira, che fatica a contenere le masse di quei glutei tellurici. Cammina curva, come le persone troppo alte. Due metri almeno, cazzo, forse di più. Da dove è uscita fuori una donna del genere? Mi alzo, vado alla finestra, spero di veder spuntare fuori qualcuno da quella boiata di fango e di nulla. Ma la strada è lontana, questo è il regno delle lumache e delle gigantesse, a quanto pare. Un lampo, subito seguito dal suo tamburo sfondato. Riprende a piovere. I tanti chili della donna tornano in salotto, insieme a un vassoio troppo piccolo. Non mi è mai piaciuto il tè. Fanculo, meglio accontentare la gigantessa. Sorrido come se mi avessero arpionato sul groppone. Mi siedo, sorseggio quella merda bollente. Non mi toglie gli occhi di dosso. I suoi denti mordono ritmicamente le labbra, somigliano alla fica di una vacca. Pandemia di porpora. Le tette balzano sempre più fuori, la grassa troia lo ha fatto apposta, ha calato le spalline del vestito per farmi ammirare il décolleté da balena. Un Gesù Cristo d’argento soffoca, là in mezzo. Meglio deviare l’attenzione verso qualcos’altro, prima che la padrona di casa mi salti addosso. Saranno anni che non chiava, troppo caro il prezzo per un tè di merda. Riesco ad aprire bocca, finalmente. «Dove hai trovato quella roba? Sono libri molto rari.» La gigantessa tira un respiro pesante, un vortice, schiaccia la schiena sulla spalliera del divano e mi risponde annoiata. Non è quello l’argomento che le interessa. «Ebenezer, un amico. Ha lavorato anni su un mercantile, ha girato il mondo. Un collezionista di stranezze, ogni volta che veniva a trovarmi mi portava un regalo.» Si alza, afferra il Regnum Congo e torna a sedersi, sempre più vicina. Le sue corde vocali vibrano sulle radici, sputando fuori qualcosa di simile a un sussurro. La bocca si muove modulando suoni marci. Il suo sudore si mescola al profumo di viola che si è sparata addosso. L’odore di un cimitero d’estate, di atomi di un macabro agosto, fusi sulle lapidi bollenti. La tavola XII dei fratelli De Bry, il libro si apre sempre in quel punto. La macelleria Anzique si anima ancora una volta. Le dita tozze della gigantessa accarezzano i disegni, le sfumature di sangue, le sezioni. Quella scena orribile sembra eccitarla. Insiste, frega con le unghie affilate quei pezzi di corpi umani che penzolano dalle corde, co leggere inclinazioni che fanno immaginare il vento. Il lento respiro dell’Africa. Oppure è lei a far oscillare la carne, manovrandola con i polpastrelli. Sono confuso, la maledetta illustrazione si trasforma in un imbuto, la mia mente cola lentamente dentro quella follia. Una goccia di sangue, di quello vero, si schianta al centro della pagina. Proprio sulla faccia del macellaio che prepara gli spiedini d’uomo. Cazzo, la pioggia non è rossa. Sollevo gli occhi verso il soffitto, una grande macchia rossa, irregolare, si allarga sempre più. Gronda sangue fresco, altre gocce sono pronte al salto, trattenute da sottili filamenti viola. Le immagini diventano sfocate, cosa cazzo mi ha fatto bere la grassa troia? Buio, la sensazione di qualcosa di pesante che mi schiaccia il petto, perdo i sensi. Dunque è tutto vero, sono all’Inferno da ore, ormai. La gigantessa che mi offre il tè in una casa inesistente, prima di spedirmi dentro, tra le fiamme. Una strana guardiana dell’aldilà, la grassona. Ora incontrerò il mio vecchio, qui non potrà certo scappare. Ho finito di consumare la mia vecchia Ford tra le strade di polvere del Massachussets. Tornano improvvisamente gli odori, i rumori. Occhi bovini che mi fissano, una bocca insanguinata che mi bacia. Non sono nel mio appartamento all’Inferno, ma nel letto della gigantessa. I pensieri si sono riaccesi, ma non riesco a muovermi. Sono nudo, come la padrona di casa. Una grossa tetta mi sbatte in faccia, la mia amante si è voltata: ora ho sulla faccia il suo enorme culo che balla come un budino di vaniglia. Non riesco a respirare altro che la sua carne trionfante, i suoi umori che mi colano sul collo, sul petto. Cosa cazzo fa? Me lo sta succhiando? Non sento nulla: piacere, dolore, disgusto, nulla. Capisco quello che mi sta facendo solo quando si mostra il suo profilo massiccio: si è rialzata dal mio ventre, dove era affondata con la faccia. Tra i denti ha pezzi di me, roba morbida, non riesco a capire cosa mastica. Dal mento le cola sangue. Si succhia le dita e scende di nuovo a lavorare sul mio ventre. Il suo culo che danza è la mia porta dell’Inferno. * Nota: estratto, liberamente interpretato e tradotto, da “Relatione del Reame Di Congo Et Delle Circonvicine Contrade di Odoardo Lopez il portoghese” di Filippo Pigafetta Coming in July 2020, from Necro Publications, the Hardcover Limited Signed Edition of my novel NARAKA.
You can preorder the book at Necro Publications Store. Uscita per Independent Legions l'Edizione 666 Special Edition del mio romanzo Shanti; edizione integrale dell'opera con 3 capitoli finali aggiuntivi, inserto a colori illustrato da Stefano Cardoselli, tiratura extra-limitata (25 copie), copie numerate e firmate da me, circa 270 pagine. Sono attualmente disponibili pochissime copie presso l'editore.
Acquista la tua copia sullo store Independent Legions Il seguente racconto è stato scritto nel 2015 e pubblicato nel 2016 nella raccolta di racconti Kannibalika (EUS Edizioni).
Oggi il libro non è più in commercio e questo racconto, Il Re che Dorme, non è stato volutamente pubblicato in altre raccolte o antologie, come altri pezzi. Forse lo sarà in futuro. Buona lettura IL RE CHE DORME ©Caleb Battiago/Alessandro Manzetti Tutti i diritti riservati La casa è senza lingua, è una natura morta alternativa con al centro un materasso sporco, che sporge dalla cornice, la morbida Terra Santa del grassone che dorme. La bottiglia, il piatto con tre pesche, l’arancione che fora le lenzuola bianche. Le scheletriche dita di Cézanne che grattano sulla tavolozza, il Re che borbotta e si volta dall’altra parte; il fico verde, un teschio, un mazzo di carte. Noi tutti intorno, in silenzio. Il quadro non cattura i nostri colori, le nostre forme magre. Mia madre, seduta nel suo angolo preferito, cuce l’orlo a un paio di pantaloni, mentre Sara, mia sorella, si sporge e si avvicina al naso del Re che dorme. Controlla che respiri ancora. «Lascia in pace tuo padre, deve riposare» sussurra mia madre. Le gambe da fenicottero di Sara spuntano dalla gonnellina gialla, sotto le ginocchia sbucciate. Domenica. Finestre chiuse, vestiti colorati, quelli buoni. Gli specchi più grassi e il ronzio del frigorifero a bocca vuota. La carta da parati con i gigli d’avorio, quella strana luce del pomeriggio che ci rimbalza addosso, la nostra pelle che diventa grigia, più sottile di sempre. Il tessuto bianco e nero della televisione senza antenna, una tela di Pollock da ventiquattro pollici. «Quando si sveglia?» insiste Sara, mia madre alza lentamente gli occhi dalla visiera dei pensieri, solleva l’indice sul naso, la sua bocca diventa una fessura. «Ti ho detto di parlare piano, e di lasciarlo stare». Già, il Re dorme e non deve essere disturbato. Stringe gli occhi, sembra lampeggiare come un’auto sportiva che vuole superare, suda, gli scappa una bestemmia sulla graticola di un grugnito e il suo pubblico non fa una piega. Cosa starà sognando? «Sta litigando con l’Uomo Nero» suggerisce Sara. Forse ha ragione lei. L’Uomo Nero è tanto che non si fa vedere, qui da noi. Ha paura anche lui, del Re. Il pavimento di marmo non sa più succhiare le ombre, alzo un piede e sotto non appare nulla, il sangue bianco e giallo del lampadario e delle sue otto lampadine spremute mi passa attraverso solo per specchiarsi in quelle geometrie incastrate. Quei binari buoni per le biglie, per immaginare confini di riserve indiane e linee di accampamenti di fanteria. Solo a pensarci, mi sale nel cervello l’odore della varecchina, il tamburo degli zoccoli di mia madre. «Vai a giocare da un’altra parte, non vedi che sto pulendo?». Sono passati tanti anni, tanti immaginari cimiteri si sono scambiati di posto, tra elmetti sparpagliati e granate di varecchina. Adesso c’è solo la tomba del vuoto, mio padre che russa, un pollo arrosto pugnalato sul tavolo in cucina, freddo come l’inverno, la grandine di naftalina negli armadi. «Cosa stai cercando là dentro? Non mettere in disordine, lo sai» borbotta mia madre. Sara si sta annoiando, apre gli sportelli e infila la sua piccola testa ovunque. Una cacciatrice di polvere e di fantasmi di bambole di plastica sempre sorridenti. Cerco di distrarla, prima che faccia qualche guaio. Mia madre vuole che tutto resti in ordine, tutto immobile. Tutto com’era prima. Allora lei prende a seguire il suo strano filo d’Arianna, viola e fibroso, srotolatosi dal suo ventre, liberato in tutta la sua lunghezza; sembra un giovane pitone che striscia a destra e sinistra per curiosare nelle varie stanze, con la coda ancora fissata dentro il corpo di mia sorella. D’altronde, dov’era prima il serpente, raggomitolato nella pancia, nel suo caldo buio, non poteva certo vedere casa, ispezionarla. La testa dei suoi intestini, senza occhi, è arrivata fino in bagno, i rettili cercano sempre l’acqua, e Sara la segue stringendo le spire con tutte e due le mani, lasciandosi trascinare. La vedo scivolare via dalla stanza di mio padre, del Re che dorme, pattinare nello stretto corridoio, passare davanti alla serie di vecchie stampe ingiallite che ritraggono i tanti cespugli, i rovi, i prati immensi senza padrone, le unghie della palude, le legioni di rospi che prendono il sole pieno centro; la natura che cerca di grattarsi via dalla pelle le sue pustole: i monumenti, le piscine vuote dei circhi, le statue e gli acquedotti di Roma. Come era prima, la città. Arriva in bagno, dove la lingua biforcuta dei suoi intestini sta leccando con pazienza il collo del rubinetto; la bestia vuole dissetarsi. Sara riavvolge il suo filo d’Arianna sanguinolento, viscido, ma è difficile rimettersi tutta quella roba dentro la pancia. Un pezzo di troppo, che non trova posto, lo attorciglia intorno al collo come una sciarpa amaranto, lucida. Poi torna da noi ed esclama «Come mi sta?» Mia madre si china sempre più verso il pavimento, per prendere più luce possibile dalla finestra, il crepaccio nel suo cranio sembra una ferita fresca sul cono del Vesuvio. Mi avvicino e guardo dentro la sua testa: i suoi pensieri creano bolle vischiose, sembrano rigurgitare se stessi e colare sulla sua camicetta a fiori, ma funzionano ancora; muovono con precisione le sue dita, l’ago e il sentiero del filo che non cede dall’orlo. «Va tutto bene mamma?», le chiedo. L’occhio sinistro che le penzola fino alla guancia, collegato alla sua sede dall’ultimo elastico dei nervi ancora intatto, mi fissa. «Vai a prendermi un fazzoletto, tesoro». Ma io mi attardo a guardare ancora nella sua testa aperta. Chissà dove sono le ostriche saldate delle cose che non ci ha mai detto. Facendo attenzione a non toccare il cervello, grigio, giallo e povero di succhi, forse potrei pescarle tra i suoi tessuti con un amo e una lenza. Prendere un coltello, forzare le ganasce una ad una, scoprire perle e giornate parallele. Aprire le sue scatole di ombre e metterle una sopra l’altra, come una torre di bicchieri in equilibrio che arriva fino al soffitto. Poi guardo le mie mani, sono insanguinate ma non fanno male, deve essere un’illusione; invece non trovo più la mia testa. Tutto di me si ferma appena sopra al collo, che sembra il ceppo di un albero di troppo, l’ultimo decapitato di un branco di sempreverdi che invadono le metrature di cemento di un grande centro commerciale, col suo piatto chiaro e levigato che contrasta con la ruvida corteccia. Mi guardo nello specchio, sono curioso di vedermi, ma è tutto inutile, non vuole più riflettermi. Sono così orribile senza testa? «Macchè, stai proprio bene», mi risponde Sara. Lei sa leggere i miei pensieri, solo ora mi accorgo di poterlo fare anche io. Basta contrarre l’addome e trattenere il respiro per qualche secondo. Mia madre sta pensando a quella giornata al mare, il presepe bianco di Sperlonga sullo sfondo, io e Sara sulla riva a rincorrerci. Il Re che dorme sulla sabbia con la bocca aperta, mostrando a tutti i suoi due denti d’oro e la lingua bruciata a crudo dall’alcol. Vedo con gli occhi di mia madre, a volo d’uccello su tutto quel sotto così lontano e sbiadito. Mancano i colori, e le nostre facce sono confuse da un vortice che vibra, un’interferenza. Sembriamo una famiglia di mostri. Sara invece è concentrata su una canzone, che però non riesco a distinguere. Suona al contrario, come un violino dalla pelle secca e spaccata, si trascina come uno zombie con le ginocchia marce che scricchiolano, asincrone col busto sfondato. Forse è una ninna nanna, quella macabra che il Re ci soffiava sulla faccia? Quella del mago che spunta a mezzanotte dalla finestra, col cilindro in testa e un rosario di budella al collo. Avvicinati, ti mostrerò cosa c’è qui dentro. Notti che puzzano di vino e di sudore. Notti con la canottiera bucata, con macchie dense sulle lenzuola al posto delle stelle, con bestemmie come preghiere, santi con denti d’oro che nascondono la coda nelle mutande troppo larghe, e cilindri pieni di sorprese. Riesco a sentire anche i pensieri delle persone che passano sotto la finestra, quelli dei vicini, perfino il fiume; il Tevere che morde le code dei ratti e si lamenta quando sbatte la schiena sulle tozze gambe da elefante dei troppi ponti di Roma. Fanculo. Io lo sento, adesso. «Ale! Vieni!» Sara è in cucina e mi sta chiamando. La raggiungo immergendo le pantofole nel lago di varecchina rossa che è diventato il nostro pavimento. «L’ho trovata! Visto?» Apre il frigorifero soddisfatta. Tenuta ferma da due bottiglie di latte sui lati, c’è la mia testa, voltata verso destra, che fissa un pezzo di pancetta affumicata. Nel ripiano di sotto c’è la mia lingua, in un piatto. Sembra così piccola fuori dalla bocca, separata dalla radice. Il freddo ha contratto il suo corpo fibroso, ed è rimasta con la punta all’insù, pronta per leccare un gelato. Mi riprendo la testa, la sistemo sotto il braccio e torno nella camera del Re. Dovrà svegliarsi prima o poi, mio padre. Qualcuno bussa alla porta, mia madre si alza dalla sedia e corre a vedere dallo spioncino. «Non fate rumore!» sussurra, e continua a guardare. «Chi è mamma?», chiede Sara. Lei non risponde e non si muove dalla porta, sembra restare di guardia. Continuano a bussare, sempre più forte. Provo ad ascoltare i pensieri di mia madre, contraggo l’addome e trattengo il respiro, ma quelli di Sara, accanto a me, fanno più rumore. Sta immaginando che dietro la porta ci sia il mago della storia di papà, quello col cilindro e il rosario di budella al collo. Riesco a vedergli la faccia dipinta di bianco, la giacca stretta e un cuore pulsante che gli sporge dal taschino. Spruzza sangue a ogni contrazione. Non è il suo, di cuore, quello è al sicuro dietro le palizzate delle costole. Il pianerottolo è invaso dalle mosche, seguono il mago e la sua scorta di carne fresca. Umana. Poi, la trasmissione si interrompe, e fa male. Sembra un elastico tirato troppo che si spezza all’improvviso. Sara ha paura e sta piangendo, con una mano sulla bocca per non far rumore e l’altra sul ventre per non far scappare il serpente amaranto che cerca di sgusciare via. La paura, ad ascoltarla, sembra un ronzio meccanico, come il respiro di una congegno surriscaldato, e lo schermo è tutto nero. Non si vede e non si sente più niente. Guardo la mia testa, che tengo ancora sotto il braccio, la sollevo davanti a me. I miei occhi sono chiusi, ma delle lacrime scendono lungo i loro canali, più freddi del solito. Fa male quando i pensieri si spezzano, anche quando non sono i tuoi. La mia testa sembra più leggera, dopo aver pianto. Finalmente smettono di bussare, mia madre ci prende per mano e ci spinge in cucina, faccio in tempo a sbirciare nella camera dove sta dormendo il Re. Una delle mosche del mago dev’essere riuscita a entrare in casa, e continua a sorvolare la faccia di mio padre. «Vi va di fare merenda?» Mia madre, con la testa sfondata, barcolla un po’ ma riesce ad alzarsi sulle punte e ad aprire gli sportelli più in alto. Ormai ha uno strascico di colla umana, di gelatina densa; il suo cervello si sta lentamente svuotando. Ma quanta roba contiene? Sembra una sposa eretica, col vestito rosso sangue, i capelli grigi e sulle spalle il manto giallastro del liquor cerebrale, che brilla in trasparenza. La immagino avviarsi tra le navate di una cattedrale apocalittica, con un caprone dal pelo scuro e le corna ritorte che l’aspetta all’altare, con in mano un imbuto e un secchio per raccogliere i suoi ricordi appiccicosi. Dall’altra parte, quella dev’essere roba preziosa come il grasso delle balene. Quanti barili può contenerne mia madre? Ci sediamo intorno al tavolo, mia madre sistema i piatti e sposta di lato la mia testa, che ho poggiato sopra, per fare spazio a un grande vassoio d’acciaio. Dentro non c’è niente, è vuoto, faccio segno a Sara di far finta di niente, di fingere di mangiare. Il livello del liquor nel cervello di mia madre è troppo basso ormai, sta mollando il volante della sua esistenza nelle mani delle ombre che iniziano a riapparire. Bacia mia sorella sulla fronte, sfiora il ceppo insanguinato che ho tra le spalle, carezza i miei nervi snodati e le creste dei muscoli tranciati. Dice che il moncone della mia colonna vertebrale, che spunta libero, con la sua sezione così bianca, somiglia al collo di un cigno. Poi si fa seria, la sua faccia sembra improvvisamente più vecchia e logora di sempre. «Non abbiamo ancora molto tempo, cercate di mangiare qualcosa prima di uscire» sussurra, con un orecchio teso ai mugugni del Re nell’altra stanza. Il suo occhio sinistro, quello ancora integro, somiglia al buco di un lavandino che ha finito il suo lungo lavoro, dopo aver ingoiato tutto per anni. Non voglio leggere i suoi pensieri, adesso. Mi fanno paura. Preferisco andare alla finestra e osservare Roma, la coda arancione del pomeriggio, il tendone sfibrato del cielo e i barattoli di gente che rimbalzano sull’asfalto. Pallottole con quattro sportelli sparate a destra e sinistra, che corrono contro il tempo. Un camion che rimorchia la Luna, che ormai deve prepararsi, con dietro la scorta di poliziotti in motocicletta. L’ospedale vuoto, gli striscioni di protesta, bestemmie e grandi vagine dipinte su lettighe bianche appese alle finestre, e quel pazzo che continua a gridare col megafono, in testa al suo esercito di licenziati con la spada di gomma. Il vecchio che vende oroscopi e santini all’angolo della strada, le orecchie appuntite del suo cane che cerca di grattare il marciapiede per sotterrare un cranio, il cappello pieno di monetine. Il lampione ancora spento, sull’estremità a forma di amo gigante c’è un angelo impiccato con un cartello al collo che dice: RIAPRITE I MANICOMI. Gli hanno fregato anche le scarpe. Poi eccole, le sirene: le volanti della polizia, i carabinieri e dietro un’ambulanza che si affanna a tenere il passo, spingendo i suoi larghi fianchi nel traffico. Inchiodano davanti all’ingresso del nostro palazzo. Chiamo vicino a me Sara e mia madre, restiamo a guardare dalla finestra per qualche secondo. «Ci siamo. Andate a salutare vostro padre» sussurra mia madre. «Ma non svegliatelo, non ancora». Il Re sta ancora dormendo nel suo brodo di alcol. La varecchina rossa ha invaso casa, la marea è sempre più alta, tra poco vomiterà dalle finestre. Fisso le mani di mio padre, quella che si contrae come per sfiorare la pelle di qualcosa, per riconoscerne i lineamenti, e l’altra che tiene ancora stretto il coltello. Gli poggio una mano sul cuore, premo sulla canottiera per qualche secondo. Lo sento. Il suo eco forsennato mi rimbalza dentro. Sara e mia madre, in fila dietro di me, lo baciano sulla fronte. Lascio la mia testa vicino a lui, sul bordo del letto. Poi ci mettiamo tutti in un angolo ad aspettare. Sfondano la porta, sono in sei, coi giubbotti antiproiettile e le armi spianate. Nel corridoio scorrono voci e grida che spaccano le ossa di tutto quel silenzio. C’è chi controlla la cucina, chi il bagno e il soggiorno, mentre due di loro prendono a calci, con pesanti anfibi da guerra, il materasso dove dorme il Re. Mio padre si sveglia di soprassalto, balza in piedi col coltello ancora stretto in mano e gli occhi rossi, spalancati, che sembrano i fanali posteriori di un camion. Scivola su una bottiglia di Jameson e cade col muso sul pavimento, trascinando con sé le lenzuola zuppe di sangue e la mia testa che rotola fino alla porta. Gli ficcano in bocca una calibro 9, il tempo di ammanettarlo. Uno di loro, con un ghigno infernale e due baffi a manubrio, quello che ha aperto il frigorifero e ha trovato la mia lingua e tutto il resto, si avvicina all’orecchio del Re e gli sussurra, sibilando come un rettile dalla saliva avvelenata: «Ti sei divertito a farli tutti a pezzi, vero gran figlio di puttana? Prima di metterti dentro e buttare la chiave ti faremo un bel servizietto, in caserma». Come antipasto, prima di farlo trascinare via, gli molla un paio di calci nelle palle, facendogli sputare i denti d’oro e saltare via la corona dalla testa. Il Re non si è sognato quel macabro mattatoio, ci ha ficcato davvero le mani, in quella carne. Ha perfino spezzato la lama del coltello, per la furia. E ora sembra stupito di aver fatto tanto, delle sue stesse vertigini. «Non guardate. E non fate rumore, mi raccomando. Non ancora», si raccomanda mia madre. L’uomo con l’impermeabile nero, l’ultimo a lasciare la stanza, si volta verso di noi e si avvicina all’angolo dove ci siamo raccolti, dove le ombre ora fioriscono dense. Forse ci ha sentiti. Annusa l’aria, sembra incerto sul da farsi, ma poi sputa per terra, dice «Cazzo!» e se ne va. Osservo i nostri corpi, e i miei vari pezzi, passare veloci nel corridoio dentro sacchi neri, pronti per l’obitorio. Erano passati due anni da quando mio padre aveva perso il lavoro, da quando noi eravamo diventati delle schegge di vetro ficcate nel suo cervello. Due anni che non riusciva più a dormire, prima di oggi. «Ora dobbiamo andare», dice mia madre senza più sussurrare, tirandomi per il braccio. La luce blu entra in casa, fa freddo. Le nostre due ore da fantasmi sono finite. Arrived my copies of 'Shanti' and 'The Radioactive Bride' Hardcover Signed/Lettered Limited Edition3/12/2020 Finally arrived the beautiful copies of sell-out Hardcover Extra-Limited Signed/Numbered Edition of my novel 'Shanti' and my collection 'The Radioactive Bride', both released by Necro Publications (trade paperback editions are available at Amazon) Same edition of my novel 'Naraka' will be released shortly
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