Ho scritto questo racconto nel 2015, ed è stato pubblicato in italiano nella raccolte di racconti 'Kannibalika' e Il Giardino delle Delizie, entrambe non più in commercio, e in inglese nella raccolta di racconti in inglese The Garden of Delight, che ha ricevuto una nomination allo Splatterpunk Awards 2017 nella categoria 'Best Fiction Collection'.
Oggi lo trovate nella raccolta di racconti I Figli di Uxor 77 (Independent Legions), disponibile su Amazon. L'Illustrazione sopra riportata è stata realizzata ad hoc da Stefano Cardoselli. LA MATTANZA DELLE SIRENE 2015 ©Caleb Battiago/Alessandro Manzetti Tutti i diritti riservati Liberamente ispirato all'episodio Mermaids in a Manhole (1988, tratto a sua volta da un manga di Hideshi Hino) della serie di lungometraggi Guinea Pig Maggio, tempo di nuove Naumachie nella Roma puttana della Papessa transgender: le mattanze delle post-sirene eccitano i cittadini, i brutali rais delle chiatte e i figli di puttana di ogni tipo. La torta del Colosseo è stata sistemata, le arcate di terz’ordine rimesse in piedi, nuovi anelli e travertini in acqua flessibile, gli speroni e i conci in lega morten scintillano come denti d’argento innestati in una bocca da 75.000 anime. La biscia incazzata dei nuovi canali concentrici domina la struttura sotterranea dell’arena, dalle spire originali ormai disintegrate. Innesti, vecchie polveri rianimate, poltrone in comodo syntex incollate ai gradini di marmo artificiale, blocchi di condensati korton sfilati dalle fondamenta delle case popolari. Arcate, criptoportici decorati con spine dorsali fossilizzate e alveari di pozzi di colla derattica e liquido amniotico sequestrato. Rampe elettromagnetiche, pellicole adesive di travertino e laterizio, capitelli osceni di gomma, una serie di statue di caproni e sirene, dai genitali ornati di grana fina di salinio, riempiono di nuovo i vuoti, lo stomaco solitario degli archi, i buchi neri. l’Anfiteatro è tornato al suo sanguinario pagano splendore. Un grande cantiere sponsorizzato dalla ‘Gallina Nera’, simbolo della nuova Roma schizzata fuori da uteri di silicone, da strette fessure di carne marcia bardate da bande porpora e oro. Proprio come le finestre dei vecchi palazzi dei nobili in festa. I grandi ludodisplay della città promuovono il nuovo spettacolo, sparando ologrammi a ciclo continuo sulle facciate di basiliche corrotte che proiettano post-sirene arpionate, tritoni con zanne elettroniche e tentacoli al posto delle gambe che mordono e fottono code, tette, bocche urlanti. Dagonachie, l’ultimo ritrovato della Papessa per sfogare le pulsioni dei cittadini e tenere sotto controllo il sovraffollamento dei lebbrosari delle donne, internate negli intestini umidi delle catacombe. Nei sotterranei della Roma puttana pulsano demoni riproduttivi, che non hanno ancora donato le proprie pericolose ovaie alla Cattedrale della Gallina Nera. Una struttura verticale di rostri e sporgenze di acciaio2 che ha spappolato le vecchie scuderie del Quirinale. Tutto è organizzato: chirurghi, confessionali attrezzati, cesure laser senza anestesia, estrazione degli organi, delle uova corrotte, tatuaggio elettronico sulla mano destra: è il via libera per abitare nella Roma di sopra, nel rispetto del coprifuoco. Donne, pensateci, ripetono all’infinito i lugubri jingle sugli infodisplay della Gallina Nera. Una testa di Medusa, morsa dai suoi serpenti, sgomenta, si trasforma velocemente in un viso disteso, bianco, elettrico: pensieri di lattice e di ventre vuoto, disinnescato. Il trattamento, il prima e il dopo. Il Nirvana? Gli spettatori spingono, prendono posto, sbavano. Sempre la stessa storia alla prima delle Dagonachie. L’Anfiteatro sembra scoppiare, anime compresse all’inverosimile. Il palco della Papessa è ancora vuoto, la regina della Roma puttana, insieme ai suoi cardinali dal machete facile, farà il suo trionfale ingresso durante la seconda parte dello spettacolo, quando le acque diventeranno rosse come la plastica di copertura della struttura. Riflessi ovunque, facce rosse di pellegrini e di arpioni che vireranno sempre più verso il viola delle viscere. Nelle camere di trasformazione le donne vengono preparate con cura. Tecnologia avanzata: quattro seghe circolari sezionano i corpi in due parti, un taglio laser appena sotto l’ombelico. Sutura rapida con iniettori di plasticellule, prima di innestare le code di tonni conservate nel ghiaccio in grandi contenitori. Le gambe delle donne, e tutti gli scarti delle nuove sirene, vengono tritati in un macro-frullatore. Diventeranno polpette, saranno distribuite agli spettatori, con tanto di numero di serie. Pandemia di responsabilità. Le Dagonachie offrono un’esperienza completa, sensoriale ed emotiva. Spettacoli molto costosi, certo, ma il budget della propaganda della Gallina Nera sembra essere infinito. I palchi delle T-Girls, le amazzoni della nuova Roma, sono disposti al centro del primo anello, godono di un’ottima vista sulla mattanza delle donne. Sirene con code di tonni surgelati e sirene con testicoli naturali, scambi di sguardi, di ruoli, di potere. Transtriarcato. Il Colosseo è già allagato, le chiatte dei rais navigano lentamente, spinte dai motori elettrici a capienza, tagliano le acque come rasoi in immersione, animando una sottile doppia scia che si interseca; sono pronte con i loro arpioni, mancano solo le prede da cacciare. Dai canali concentrici vengono sputate fuori le post-sirene, per non affogare subito hanno dei compensatori di gravità installati sulla schiena. Non sanno ancora manovrare bene le loro nuove code di tonno, nonostante le grappette peripeliche che attivano la condivisione delle connessioni nervose. Ci vorrebbe un lungo addestramento per farle nuotare davvero, ma non c’è tempo. Le chiatte si muovono velocemente adesso, preparano le reti, regolano le proiezioni dell’arpioscopio che fuoriesce dallo sperone dell’imbarcazione, che scivola a destra e sinistra, in alto e in basso, sotto la cresta d’oro della testa gigante della Gallina Nera. La mattanza sarà facile e veloce, come sempre, le sirene più dotate riescono a immergersi in due metri d’acqua al massimo, e per pochi secondi. Le reti le convoglieranno tutte verso il punto giusto, fino a stringerle nelle maglie giuste, nelle camere della morte, dove assaggeranno l’arpione e i machete degli uomini del rais della chiatta. Finalmente il lago dell’Anfiteatro diventa rosso, brandelli di sirene galleggiano sulla superficie: braccia, teste, scaglie d’argento scintillanti, reti gonfie di occhi incastrati, aperti o già chiusi. Le urla delle prede, il canto delle post-sirene, accende l’estasi degli spettatori, che ingoiano con eccitazione le polpette delle vittime. Due spettatori sono felici di condividere lo stesso numero di serie di una sirena, stanno divorando le stesse gambe umane della preda. La gang del rais lavora sui lati della chiatta, spacca crani, fa volteggiare i machete in modo spettacolare. Il più robusto, che indossa l’elmo da tritone con due corna a forma di tentacoli, con ventose accese a intermittenza da led azzurri, mostra al pubblico la sua lama con un seno tranciato sulla punta. Un taglio preciso, difficile. Applausi. L’ingresso della Papessa nell’Anfiteatro: la sua sagoma scura, le nere dune delle sue enormi tette sintetiche, compaiono sul palco centrale, seguite dall’orda marcia del suo seguito. L’ombra del grande becco della Gallina Nera la sovrasta, la nasconde nell’ombra. Nessuno ha mai visto la faccia della regina della Roma puttana. Almeno, nessuno ancora vivo, in grado di raccontare qualcosa. Questione di sicurezza, è chiaro. I tritoni si battono il petto, i machete dei marinai rombano, le lame si scontrano: l’omaggio alla Papessa ha un rumore di metallo affilato. Le reti vengono tirate a bordo dagli argani pneumatici, le poche sirene superstiti sono gettate sulle piattaforme delle chiatte, sanguinanti, sguscianti. Si muovono in modo goffo e ridicolo, fuori dall’acqua. La chiatta 1 lancia il segnale, il rais accende i led rossi sul perimetro della sua imbarcazione: è pronto. Aspetta un cenno dall’infodisplay della Papessa per procedere. Tutti i settantamila occhi del Colosseo si incollano al grande schermo appeso sopra al palco dell’imperatrice senza fica, che controlla le catture della chiatta con il suo binocolo. Una grande mano elettronica, con un crocifisso nero inciso sul palmo, si apre, si chiude a pugno, ruota fino a mostrare il pollice verso. Capezzoli turgidi, eccitazione sparsa. Il rais, sconfitto, è costretto a elettrificare la sua rete di sirene, che si dibattono sulla piattaforma fino a spegnersi, dopo che gli occhi sono schizzati fuori dalle orbite per tuffarsi nell’acqua rossa. Fumo dalla chiatta 1, tocca alla seconda adesso, applausi. La chiatta vincitrice avrà l’onore di consegnare la sirena scelta alla Papessa per il suo banchetto privato. Lische e ossa, squame e pelle vengono trattate: morbidi bocconcini di post-sirena conditi con zenzero e sottili fette di mango. La Papessa è ghiotta di spezzatino di fegato alla cannella, con contorno leggero di stuzzichini di sedani avvolti in spirali di lingua, mentre il suo Gran Visir, centoquaranta chili di santità, adora i fiori di zucca ripieni di alici del Mar Cantabrico e tritato di polmoni. Molto meglio delle polpette di resti che ingoiano gli spettatori. Cinque crediti l’una. Rino dipinge incubi, mostri, suda roba verde fosforescente. È il suo lavoro, ha abbastanza clienti per pagare l’affitto del suo contenitore di cemento in Via Prenestina. Sopravvive nel grande ghetto est della città, dove un dio figlio di troia, grande appaltatore, ha cacato una schiera di tombe megalitiche sotto un cielo venusiano. Il coperchio asfissiante e scheggiato della Roma puttana, della Roma della Papessa. Rino non sogna i suoi incubi, li vede davvero. È questo il suo segreto: basta un piede di porco, il tombino giusto, una torcia e un lasciapassare per i labirinti, le immense fogne che scottano il culo della città. La sua immaginazione è cloacale, galleggia, ci vuole poco a sintetizzarla, digerirla, smaltirla con i colori per poi lasciare tutto alla centrifuga del box grigio del computer. Merda dipinta e scannerizzata, trecento crediti a pezzo. L’artista è la fogna, ispirata dai sette milioni di chiappe cittadine, dai rifiuti e dagli scarti. Scarti di altri scarti, aggregati contraddittori, liquami intelligenti. Come ogni mattina Rino esce dalla sua tomba a dodici piani, va dritto verso l’ombelico della sua libido sotterranea, il tombino 147S. Indossa gli stivali, scende nelle navate rosicchiate, ammira le corone biologiche dei tubi e dei condotti, in alto. I vermi che mungono il rame, circondando i vari segmenti. Tanti matrimoni celebrati da migliaia di anelli viventi, pulsanti. Simbiosi di vite e di metalli, accoppiamenti lenti e compatti. Scopate chimiche che danno vita a nuovi plotoni di esseri senzienti. Il futuro, il dopo, sta crescendo all’ombra del grande tappo dell’asfalto, sotto i tacchi delle puttane di Via Prenestina. La meravigliosa alchimia della fogna, i suoi rumori di vite schiacciate, sopra e sotto, attraverso. Rino ascolta i suoi passi e il silenzio scannato, affogato tra i cristalli di pozze solide. Ancora qualche metro, l’ultima curva: ecco il canale 15, il suo tratto preferito della città sotterranea. La melma sale fino alle ginocchia, Rino si sposta lentamente, cammina come un palombaro farcito da diversi chili di piombo. Non vuole spostare nulla di quell’ambiente meraviglioso, ancora intatto. «Tutti i miei mostri sono qui». Rino non riesce a trattenere la voce, le emozioni. Parla spesso con se stesso, aprendo al massimo la valvola dei ricordi. Rubinetti pericolosi e infami. Mostri in copertina. La torcia inquadra un gruppo di bambole che galleggiano nella merda, la luce circolare rimbalza su occhi azzurri che salgono e scendono, su scheletri di fiche portatili, scarpe senza piedi, cataste di lingotti di test di gravidanza, contenitori di plastica deformati, cotti. Un universo immobile, squagliato, nel quale navigano ambiziosi i grandi ratti. Occhi gialli, che salgono e scendono, vivi. Una bambola sembra diversa dalle altre: senza capelli e occhi pneumatici. Rino si avvicina, i fiotti del suo sudore fosforescente spruzzano la fronte senza più freni. Cazzo, altro che bambola, quella è roba vera, di carne, ancora attaccata al cordone ombelicale. Feti, scarti, scarti di altri scarti, anime non autorizzate nella Roma puttana, nella Roma della Papessa. Gravidanze che possono costare l’internamento nei lebbrosari delle catacombe. «Questo è il posto sospeso. Il Limbo è la vera meraviglia». Il cortocircuito nel cervello di Rino è assetato di nuovi sconnessioni. Si siede, srotola la follia, che si dipana fino alla fine della galleria. Si svolge un lungo tessuto di seta con pietre gialle e blu incastonate: illusioni di luci, visioni ritorte. Scenari di altrove senza spessore. «Amici, venite fuori, sono io». Le stesse parole di sempre, di tanti anni prima; otto anni, la piccola stanza nera, quell’uomo grosso che lo chiudeva dentro per giorni. Punizioni senza occhi, la cinta del buio sulla schiena, lividi invisibili. Poi un giorno sono arrivati gli amici a fargli compagnia. I mostri. Rumori nelle acque del canale, schizzi e aureole di mosche. Deve esserci qualcosa di grosso giù in fondo, pensa Rino. Il palombaro riprende a navigare nella merda, spostando rifiuti dalla pancia gonfia di melma. La torcia accende un seno bianco, poi esplora il busto di una donna, che schiaccia la schiena sulle pareti grigioblu della cloaca. Una donna, qui? Con una coda di pesce? Rino ha trovato una post-sirena, una di quelle assemblate, col culo di tonno. Quelle che tritano al Colosseo. Come è finita qui? Stavolta non si è rivelato uno dei suoi mostri, ma lui non è certo deluso, è sempre stato affascinato da quelle doppie creature giuntate da una centralina elettronica. La fogna parla, mentre le mascelle di Rino si allentano. Viti saltate. È la fogna a parlare, o la sirena? «Durante la mattanza sono riuscita a immergermi, a raggiungere i canali esterni della piattaforma sotterranea. Mi sono aggrappata forte alle maniglie. Una ventola secondaria, una di quelle che simulano onde, mi ha risucchiata fin qui: il collettore è lungo chilometri. La ventola, però, fa male». Rino osserva quello splendido esemplare di ibrido: la donna, sopra, è bellissima, iconografica, il pesce sotto ha squame bianche dai profili di ambra, la pinna è forte e generosa. La torcia scende verso il basso, la luce è crollata per la meraviglia, accendendo il viscido dorso di un gruppo di salamandre che dormono dentro scarpe da ginnastica galleggianti. Uno degli anfibi viene disturbato dal raggio di Rino, stende la lingua elettrica alla ricerca dell’estraneo, di nuovi e ignoti campi magnetici. La sirena è sofferente, lui si avvicina e le illumina il ventre, dove le dita sottili stringono forte, cercando di arrestare l’emorragia. Cola sangue dalla bellissima sirena, insieme a lacrime gialle. Sul corpo ha molte ferite, lacerazioni. Le pale di quella ventola devono far male davvero: passarci attraverso, tutti interi, è un miracolo. «Cristo, ti infetterai in questo posto, ti porto a casa mia. Ti guarirò, vedrai». La sirena stringe i denti, annuisce. Non è un tritone armato, il suo destino. Niente reti e arpioni. «Sei gentile. Ti metterai nei guai per me, lo sai?». Due uomini trasportano a casa del pittore una nuova vasca da bagno, i vicini osservano, curiosi. Rino si dà subito da fare, riempie la vasca d’acqua e vi adagia la sua post-sirena. Prende un barattolo, apre il coperchio e versa nell’acqua una polvere bianca che frigge. «Questa ti aiuterà.» «Mi troveranno, prima o poi, e ci andrai di mezzo anche tu. Io sono un mostro.» «I mostri sono miei amici da sempre, e tu sei bellissima». Rino non può perdere l’occasione di dipingere una sirena, anche se non è originale. I suoi occhi sono di nuovo vivi, accesi. L’amica fogna gli ha regalato un’opportunità: un gioiello rotto da aggiustare. La sua solitudine dai buchi saldati viene penetrata da nuovi cilindri, da caleidoscopi iridescenti. La vita che alla fine trova sempre un varco, allargando fessure invisibili e membrane di ferro. Il seme dei colori, scodinzolando in quel grembo anfibio velocemente assemblato, farà il suo mestiere, partorirà una nuova opera. Non sarà un incubo, stavolta. Ma la sirena sanguina sempre più, la sua carne è martoriata dalle pale della maledetta turbina. Non resisterà a lungo il suo nuovo, bellissimo mostro che sa rivelarsi anche alla luce del giorno. Rino è spaventato, cerca di pulire le ferite, assorbire il sangue con un asciugamano, e poi con un altro. Inutile, restano tutti impregnati di linfa di donna e di tonno, liquidi dalla diversa densità che continuano a erogare carburante di sirena nell’acqua della vasca, che diventa rapidamente rossa. Il dolore non sembra attenuarsi, ma la sua sirena si sforza di sorridere. «Grazie». Rino ha le mani nei capelli, non sa cosa fare, esita. Continua a ingoiare mosche con la sua bocca aperta, svitata. La mia sirena deve guarire, vivere! Echi nel cranio, viavai di metamorfosi. La sua Musa chiude gli occhi, potrebbe essere già stata risucchiata da una diversa turbina, quella blu che porta all’Inferno, direttamente dal condotto principale. Ma lui esorcizza i pensieri, la morte. Ha fede nel Limbo, che non distrugge nulla, che conserva, ricorda. Lancia una sonda di parole, col fiato corto. «Hai bisogno di dormire?». Osserva i movimenti fluidi delle labbra della sirena, sta dicendo qualcosa, ma non riesce a capire, è troppo debole per parlare. E se fosse tutto frutto della sua fantasia? Una post-sirena in una fogna è proprio un chiaroscuro di archetipi. La sua immaginazione lo ha sempre fottuto, confuso. Per questo è finito nella gabbia della cloaca, nel suo Limbo nero, seguendo le code, i sonagli delle ossessioni. Ma le labbra della sua musa si muovono, forse sta cantando qualcosa, come le vere sirene del mare. Se la sua, di sirena, è davvero un’illusione la terrà con sé fino alla fine, fin quando il neon della realtà deciderà di accendersi, accecando mostri e meraviglie. Notte. Rino osserva il sangue che cuoce nel corpo della sirena. Ferite troppo profonde di rasoi di due metri, ci vorrebbe un medico, ma nessuno si azzarderebbe a farsi vedere tra le tombe megalitiche di Via Prenestina. Il ghetto dei ratti, lo chiamano. Non importa avere la coda o meno, fitto pelo nero o pelle umana. È la stessa cosa, in quel posto. Arriverebbero subito le guardie svizzere con i loro machete per riprendersi la preda da Colosseo, per gettarla di nuovo in pasto ai tritoni d’assalto e ai sanguinari rais, dopo averla riparata alla meglio. I pulitori finirebbero il lavoro castrandolo e trasferendolo nello Scheletro di Metallo. Una vita da eunuco alla corte di una Regina T-Girl, le nuove Viceré di latex della Roma puttana. Senza più stanze nere, fogne, porte per il Limbo, amici mostri, meraviglie. Destini di arpioni sulla schiena ed evirazioni. Polpette di sirena e il tatuaggio del loto blu sullo scroto scavato e pulito: pene imbottigliato, grandine di testicoli. «Il mio corpo sta bruciando, aiutami». La sirena è sofferente, stringe i denti e la sua anima anfibia installata da un dio ubriaco, con lo stemma della Gallina Nera sulla carlinga dell’astronave. «Ti prego». L’ultima meraviglia sta sanguinando, morendo. Presto sarà estinta, come tutte le altre, nel ghetto di ratti di Via Prenestina. Rino si tiene la faccia fredda tra le mani, è impotente, non gli resta che assistere all’arrivo della Morte, che ha già fiutato il suo appartamento. La sirena fissa l’estraneo soffitto, lasciando scorrere gli occhi sulle pareti, sulle maschere di antichi demoni appesi al muro dello studio di Rino. Teste che gridano in silenzio, con la bocca spalancata. Forse lei riesce a sentire quelle voci, le urla di un lontano Medioevo. Un Medioevo di streghe e di sangue, di galline sgozzate e di uteri salati e seccati al sole. Un Medioevo che sta tornando di moda nella Roma puttana della Papessa. Un incontro inutile, le ultime scariche di un marcio arcobaleno. Ma Rino non si arrende, vuole confondere la morte, i suoi countdown programmati, le sue alte clessidre che tengono conto dei granelli di ognuno. Cascate di anni, di giorni, e poi di ore. Rino si decide, solleva la faccia fredda dal pavimento, si alza e accosta la bocca all’orecchio della post-sirena. «Prima che sia troppo tardi, vorrei assemblarmi con te, al posto di quel pezzo di tonno». La sirena apre gli occhi, stavolta le sue labbra suonano, si sentono. «Farla finita insieme, perché?». Il viso di pietra di Rino anticipa tutta la storia. La sua tomba megalitica di Via Prenestina è vuota da anni, la moglie è stata giustiziata nel lebbrosario delle Catacombe di Calepodio. Una gravidanza di troppo, due gemelli nel ventre, valgono la morte nella Roma puttana della Papessa. Valgono il rogo nel cubo di cristallo e gli applausi immondi e festanti di Piazza Farnese. Un martedì, proprio come oggi. Non serve spiegare altro, la sirena è debole e chiude gli occhi. «Fallo, se vuoi». Si addormenta, la pinna, la mezzaluna immobile, esce dagli angusti confini della vasca da bagno, il sangue cola lento sulla ceramica bianca, arrampicandosi sui bordi arrotondati. Piove sulla Roma così puttana e sul tetto della tomba di cemento di Rino. Gli occhi della sirena stanno mutando in piccoli maelstrom che vedono altrove, risucchiando anime nei loro orti concentrici. Labirinti. Bisogna fare in fretta, prima che sia troppo tardi. Prima che lei sia trasferita in quell’altrove, troppo lontano. Un Limbo si può accettare, due sono troppi. Rino esce dal suo appartamento, si lascia colpire dalla pioggia, tende le mani verso un cielo figlio di puttana. Prega qualcosa, qualcuno? No, vorrebbe trascinare sulla Terra, tirandolo giù per le caviglie, il dio ubriaco che ha deturpato la sua Musa. La Papessa dalle scarpe di velluto rosso e le mutandine col ripieno. Vorrebbe chiuderla per sempre nella sua fogna, nel suo tunnel preferito. Osservarla galleggiare sulla pancia, come una grande piattaforma per i tuffi dei ratti, dagli speroni e dagli scivoli delle grosse tette. Rino non può perdere altro tempo, rientra a casa, i suoi pensieri sono creature senza zampe. Il delirio si è ormai accoppiato con la sua vecchia follia, lumache brune e verdi rosicchiano la sua mente. Una sirena che muore dissanguata è l’Alpha dell’Apocalisse, un cattivo presagio, uno dei tanti materializzati nella Roma della Papessa, che somiglia sempre più a un enorme culo a sette chiappe. Molecole nere, colli di rifiuti e strade di insetti, totem di meteoriti, godemiché molecolari e polpette di sirene, colonnati fallici, lebbrosari di uteri, catacombe in overbooking. La notte, il buio: a Rino basterà chiamare i suoi amici mostri, ancora una volta, per sistemare la faccenda. Prende un piede di porco e la torcia, indossa gli stivali e si avvia verso il suo amato tombino 147S. La soluzione è nelle fogne. Scende nelle navate rosicchiate, arriva al suo canale grigioblu. Lascia vibrare la sua voce tra scatti di insetti spaventati. «Amici, venite fuori, sono io». Un vento metallico, senza radici terrestri, scuote la cloaca. Si materializza una sagoma scura, robusta, in fondo al tunnel. La sua ombra si allunga sulle pareti marce della fogna, ha una cintura in una mano e una bottiglia nell’altra. Il padre di Rino cammina lentamente verso il figlio, che rotea la testa. Il vento e la pioggia, fuori, chiudono la bocca e i rubinetti, contemporaneamente. La piccola stanza nera, le punizioni, una maledizione che ha colto nel segno. Lo schiavo del Limbo, del buio, senza più orbite, prende in braccio Rino, sale le scalette di ferro ed esce in strada, all’aperto, dopo tanto tempo. L’aria, l’abbondanza di ossigeno, stordisce la creatura per qualche secondo. Il mostro vede con antenne soprannaturali: sente più che vedere. Sa dove andare, dove portare Rino: ci è cresciuto in quella tomba di Via Prenestina, quando la Gallina Nera ancora non dominava la Cupola di San Pietro. Anche se c’erano già tutti i presagi dell’Apocalisse. Il mostro entra nello studio di Rino, appoggia il corpo del figlio sul pavimento. Punta le antenne, le due escrescenze che forano il cranio, verso la sirena sanguinante: sente le vibrazioni della Morte che siede sul bordo della vasca, in attesa. Scambio di odori tra creature dell’altrove. Il mostro, il padre, sa cosa fare. Scende in cantina, sbatte continuamente sulle pareti, sulle macchie di vecchie grida umide ancora attaccate. La cameretta nera, la cantina, le punizioni. Torna nella stanza con una sega elettrica dai denti di diamante. Si avvicina alla vasca, il motore della sega ruggisce forte sotto l’ombelico, la coda di tonno salta via facilmente. La sirena continua il suo viaggio di mezzo, a occhi chiusi. Meglio così. Il mostro si pulisce la faccia dal sangue misto, si mette in ginocchio col mezzo tonno sulle gambe, vi affonda le mani per recuperare le grappette peripeliche per la condivisione delle connessioni nervose. Aggeggi troppo piccoli per mani come le sue, un lavoro difficile per una ‘creatura del buio’. Passa al corpo del figlio, che continua a roteare velocemente la testa. Chissà dov’è, in questo momento. Esiste una fogna all’Inferno? La sega torna a ruggire, le gambe di Rino saltano via facilmente. Il mostro raccoglie il busto del figlio e lo adagia nella vasca. Inserisce le grappette peripeliche nella carne di Rino, i led verdi si accendono a intermittenza, qualcosa sembra funzionare. Accosta le due sezioni, del figlio e della Sirena, una contro l’altra, ombelico contro ombelico. Spinge, stringe la ferita con la fascia molecolare di acciaio2. Un ronzio, l’attivazione della fusione, le batterie spingono ancora energia. Ma durerà poco. Il mostro si siede sul pavimento, afferra la coda del tonno e inizia a morderla. Ha fame, la creatura del buio, e denti forti. La Morte, sul bordo della vasca, osserva stupita la sua strana preda. Una donna e un uomo collegati, una post-creatura a due cuori. Un assemblaggio che non ha mai visto. Sarà autorizzata a portare via quelle anime attaccate?
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