Il seguente racconto è stato scritto nel 2015 e pubblicato nel 2016 nella raccolta di racconti Kannibalika (EUS Edizioni).
Oggi il libro non è più in commercio e questo racconto, Il Re che Dorme, non è stato volutamente pubblicato in altre raccolte o antologie, come altri pezzi. Forse lo sarà in futuro. Buona lettura IL RE CHE DORME ©Caleb Battiago/Alessandro Manzetti Tutti i diritti riservati La casa è senza lingua, è una natura morta alternativa con al centro un materasso sporco, che sporge dalla cornice, la morbida Terra Santa del grassone che dorme. La bottiglia, il piatto con tre pesche, l’arancione che fora le lenzuola bianche. Le scheletriche dita di Cézanne che grattano sulla tavolozza, il Re che borbotta e si volta dall’altra parte; il fico verde, un teschio, un mazzo di carte. Noi tutti intorno, in silenzio. Il quadro non cattura i nostri colori, le nostre forme magre. Mia madre, seduta nel suo angolo preferito, cuce l’orlo a un paio di pantaloni, mentre Sara, mia sorella, si sporge e si avvicina al naso del Re che dorme. Controlla che respiri ancora. «Lascia in pace tuo padre, deve riposare» sussurra mia madre. Le gambe da fenicottero di Sara spuntano dalla gonnellina gialla, sotto le ginocchia sbucciate. Domenica. Finestre chiuse, vestiti colorati, quelli buoni. Gli specchi più grassi e il ronzio del frigorifero a bocca vuota. La carta da parati con i gigli d’avorio, quella strana luce del pomeriggio che ci rimbalza addosso, la nostra pelle che diventa grigia, più sottile di sempre. Il tessuto bianco e nero della televisione senza antenna, una tela di Pollock da ventiquattro pollici. «Quando si sveglia?» insiste Sara, mia madre alza lentamente gli occhi dalla visiera dei pensieri, solleva l’indice sul naso, la sua bocca diventa una fessura. «Ti ho detto di parlare piano, e di lasciarlo stare». Già, il Re dorme e non deve essere disturbato. Stringe gli occhi, sembra lampeggiare come un’auto sportiva che vuole superare, suda, gli scappa una bestemmia sulla graticola di un grugnito e il suo pubblico non fa una piega. Cosa starà sognando? «Sta litigando con l’Uomo Nero» suggerisce Sara. Forse ha ragione lei. L’Uomo Nero è tanto che non si fa vedere, qui da noi. Ha paura anche lui, del Re. Il pavimento di marmo non sa più succhiare le ombre, alzo un piede e sotto non appare nulla, il sangue bianco e giallo del lampadario e delle sue otto lampadine spremute mi passa attraverso solo per specchiarsi in quelle geometrie incastrate. Quei binari buoni per le biglie, per immaginare confini di riserve indiane e linee di accampamenti di fanteria. Solo a pensarci, mi sale nel cervello l’odore della varecchina, il tamburo degli zoccoli di mia madre. «Vai a giocare da un’altra parte, non vedi che sto pulendo?». Sono passati tanti anni, tanti immaginari cimiteri si sono scambiati di posto, tra elmetti sparpagliati e granate di varecchina. Adesso c’è solo la tomba del vuoto, mio padre che russa, un pollo arrosto pugnalato sul tavolo in cucina, freddo come l’inverno, la grandine di naftalina negli armadi. «Cosa stai cercando là dentro? Non mettere in disordine, lo sai» borbotta mia madre. Sara si sta annoiando, apre gli sportelli e infila la sua piccola testa ovunque. Una cacciatrice di polvere e di fantasmi di bambole di plastica sempre sorridenti. Cerco di distrarla, prima che faccia qualche guaio. Mia madre vuole che tutto resti in ordine, tutto immobile. Tutto com’era prima. Allora lei prende a seguire il suo strano filo d’Arianna, viola e fibroso, srotolatosi dal suo ventre, liberato in tutta la sua lunghezza; sembra un giovane pitone che striscia a destra e sinistra per curiosare nelle varie stanze, con la coda ancora fissata dentro il corpo di mia sorella. D’altronde, dov’era prima il serpente, raggomitolato nella pancia, nel suo caldo buio, non poteva certo vedere casa, ispezionarla. La testa dei suoi intestini, senza occhi, è arrivata fino in bagno, i rettili cercano sempre l’acqua, e Sara la segue stringendo le spire con tutte e due le mani, lasciandosi trascinare. La vedo scivolare via dalla stanza di mio padre, del Re che dorme, pattinare nello stretto corridoio, passare davanti alla serie di vecchie stampe ingiallite che ritraggono i tanti cespugli, i rovi, i prati immensi senza padrone, le unghie della palude, le legioni di rospi che prendono il sole pieno centro; la natura che cerca di grattarsi via dalla pelle le sue pustole: i monumenti, le piscine vuote dei circhi, le statue e gli acquedotti di Roma. Come era prima, la città. Arriva in bagno, dove la lingua biforcuta dei suoi intestini sta leccando con pazienza il collo del rubinetto; la bestia vuole dissetarsi. Sara riavvolge il suo filo d’Arianna sanguinolento, viscido, ma è difficile rimettersi tutta quella roba dentro la pancia. Un pezzo di troppo, che non trova posto, lo attorciglia intorno al collo come una sciarpa amaranto, lucida. Poi torna da noi ed esclama «Come mi sta?» Mia madre si china sempre più verso il pavimento, per prendere più luce possibile dalla finestra, il crepaccio nel suo cranio sembra una ferita fresca sul cono del Vesuvio. Mi avvicino e guardo dentro la sua testa: i suoi pensieri creano bolle vischiose, sembrano rigurgitare se stessi e colare sulla sua camicetta a fiori, ma funzionano ancora; muovono con precisione le sue dita, l’ago e il sentiero del filo che non cede dall’orlo. «Va tutto bene mamma?», le chiedo. L’occhio sinistro che le penzola fino alla guancia, collegato alla sua sede dall’ultimo elastico dei nervi ancora intatto, mi fissa. «Vai a prendermi un fazzoletto, tesoro». Ma io mi attardo a guardare ancora nella sua testa aperta. Chissà dove sono le ostriche saldate delle cose che non ci ha mai detto. Facendo attenzione a non toccare il cervello, grigio, giallo e povero di succhi, forse potrei pescarle tra i suoi tessuti con un amo e una lenza. Prendere un coltello, forzare le ganasce una ad una, scoprire perle e giornate parallele. Aprire le sue scatole di ombre e metterle una sopra l’altra, come una torre di bicchieri in equilibrio che arriva fino al soffitto. Poi guardo le mie mani, sono insanguinate ma non fanno male, deve essere un’illusione; invece non trovo più la mia testa. Tutto di me si ferma appena sopra al collo, che sembra il ceppo di un albero di troppo, l’ultimo decapitato di un branco di sempreverdi che invadono le metrature di cemento di un grande centro commerciale, col suo piatto chiaro e levigato che contrasta con la ruvida corteccia. Mi guardo nello specchio, sono curioso di vedermi, ma è tutto inutile, non vuole più riflettermi. Sono così orribile senza testa? «Macchè, stai proprio bene», mi risponde Sara. Lei sa leggere i miei pensieri, solo ora mi accorgo di poterlo fare anche io. Basta contrarre l’addome e trattenere il respiro per qualche secondo. Mia madre sta pensando a quella giornata al mare, il presepe bianco di Sperlonga sullo sfondo, io e Sara sulla riva a rincorrerci. Il Re che dorme sulla sabbia con la bocca aperta, mostrando a tutti i suoi due denti d’oro e la lingua bruciata a crudo dall’alcol. Vedo con gli occhi di mia madre, a volo d’uccello su tutto quel sotto così lontano e sbiadito. Mancano i colori, e le nostre facce sono confuse da un vortice che vibra, un’interferenza. Sembriamo una famiglia di mostri. Sara invece è concentrata su una canzone, che però non riesco a distinguere. Suona al contrario, come un violino dalla pelle secca e spaccata, si trascina come uno zombie con le ginocchia marce che scricchiolano, asincrone col busto sfondato. Forse è una ninna nanna, quella macabra che il Re ci soffiava sulla faccia? Quella del mago che spunta a mezzanotte dalla finestra, col cilindro in testa e un rosario di budella al collo. Avvicinati, ti mostrerò cosa c’è qui dentro. Notti che puzzano di vino e di sudore. Notti con la canottiera bucata, con macchie dense sulle lenzuola al posto delle stelle, con bestemmie come preghiere, santi con denti d’oro che nascondono la coda nelle mutande troppo larghe, e cilindri pieni di sorprese. Riesco a sentire anche i pensieri delle persone che passano sotto la finestra, quelli dei vicini, perfino il fiume; il Tevere che morde le code dei ratti e si lamenta quando sbatte la schiena sulle tozze gambe da elefante dei troppi ponti di Roma. Fanculo. Io lo sento, adesso. «Ale! Vieni!» Sara è in cucina e mi sta chiamando. La raggiungo immergendo le pantofole nel lago di varecchina rossa che è diventato il nostro pavimento. «L’ho trovata! Visto?» Apre il frigorifero soddisfatta. Tenuta ferma da due bottiglie di latte sui lati, c’è la mia testa, voltata verso destra, che fissa un pezzo di pancetta affumicata. Nel ripiano di sotto c’è la mia lingua, in un piatto. Sembra così piccola fuori dalla bocca, separata dalla radice. Il freddo ha contratto il suo corpo fibroso, ed è rimasta con la punta all’insù, pronta per leccare un gelato. Mi riprendo la testa, la sistemo sotto il braccio e torno nella camera del Re. Dovrà svegliarsi prima o poi, mio padre. Qualcuno bussa alla porta, mia madre si alza dalla sedia e corre a vedere dallo spioncino. «Non fate rumore!» sussurra, e continua a guardare. «Chi è mamma?», chiede Sara. Lei non risponde e non si muove dalla porta, sembra restare di guardia. Continuano a bussare, sempre più forte. Provo ad ascoltare i pensieri di mia madre, contraggo l’addome e trattengo il respiro, ma quelli di Sara, accanto a me, fanno più rumore. Sta immaginando che dietro la porta ci sia il mago della storia di papà, quello col cilindro e il rosario di budella al collo. Riesco a vedergli la faccia dipinta di bianco, la giacca stretta e un cuore pulsante che gli sporge dal taschino. Spruzza sangue a ogni contrazione. Non è il suo, di cuore, quello è al sicuro dietro le palizzate delle costole. Il pianerottolo è invaso dalle mosche, seguono il mago e la sua scorta di carne fresca. Umana. Poi, la trasmissione si interrompe, e fa male. Sembra un elastico tirato troppo che si spezza all’improvviso. Sara ha paura e sta piangendo, con una mano sulla bocca per non far rumore e l’altra sul ventre per non far scappare il serpente amaranto che cerca di sgusciare via. La paura, ad ascoltarla, sembra un ronzio meccanico, come il respiro di una congegno surriscaldato, e lo schermo è tutto nero. Non si vede e non si sente più niente. Guardo la mia testa, che tengo ancora sotto il braccio, la sollevo davanti a me. I miei occhi sono chiusi, ma delle lacrime scendono lungo i loro canali, più freddi del solito. Fa male quando i pensieri si spezzano, anche quando non sono i tuoi. La mia testa sembra più leggera, dopo aver pianto. Finalmente smettono di bussare, mia madre ci prende per mano e ci spinge in cucina, faccio in tempo a sbirciare nella camera dove sta dormendo il Re. Una delle mosche del mago dev’essere riuscita a entrare in casa, e continua a sorvolare la faccia di mio padre. «Vi va di fare merenda?» Mia madre, con la testa sfondata, barcolla un po’ ma riesce ad alzarsi sulle punte e ad aprire gli sportelli più in alto. Ormai ha uno strascico di colla umana, di gelatina densa; il suo cervello si sta lentamente svuotando. Ma quanta roba contiene? Sembra una sposa eretica, col vestito rosso sangue, i capelli grigi e sulle spalle il manto giallastro del liquor cerebrale, che brilla in trasparenza. La immagino avviarsi tra le navate di una cattedrale apocalittica, con un caprone dal pelo scuro e le corna ritorte che l’aspetta all’altare, con in mano un imbuto e un secchio per raccogliere i suoi ricordi appiccicosi. Dall’altra parte, quella dev’essere roba preziosa come il grasso delle balene. Quanti barili può contenerne mia madre? Ci sediamo intorno al tavolo, mia madre sistema i piatti e sposta di lato la mia testa, che ho poggiato sopra, per fare spazio a un grande vassoio d’acciaio. Dentro non c’è niente, è vuoto, faccio segno a Sara di far finta di niente, di fingere di mangiare. Il livello del liquor nel cervello di mia madre è troppo basso ormai, sta mollando il volante della sua esistenza nelle mani delle ombre che iniziano a riapparire. Bacia mia sorella sulla fronte, sfiora il ceppo insanguinato che ho tra le spalle, carezza i miei nervi snodati e le creste dei muscoli tranciati. Dice che il moncone della mia colonna vertebrale, che spunta libero, con la sua sezione così bianca, somiglia al collo di un cigno. Poi si fa seria, la sua faccia sembra improvvisamente più vecchia e logora di sempre. «Non abbiamo ancora molto tempo, cercate di mangiare qualcosa prima di uscire» sussurra, con un orecchio teso ai mugugni del Re nell’altra stanza. Il suo occhio sinistro, quello ancora integro, somiglia al buco di un lavandino che ha finito il suo lungo lavoro, dopo aver ingoiato tutto per anni. Non voglio leggere i suoi pensieri, adesso. Mi fanno paura. Preferisco andare alla finestra e osservare Roma, la coda arancione del pomeriggio, il tendone sfibrato del cielo e i barattoli di gente che rimbalzano sull’asfalto. Pallottole con quattro sportelli sparate a destra e sinistra, che corrono contro il tempo. Un camion che rimorchia la Luna, che ormai deve prepararsi, con dietro la scorta di poliziotti in motocicletta. L’ospedale vuoto, gli striscioni di protesta, bestemmie e grandi vagine dipinte su lettighe bianche appese alle finestre, e quel pazzo che continua a gridare col megafono, in testa al suo esercito di licenziati con la spada di gomma. Il vecchio che vende oroscopi e santini all’angolo della strada, le orecchie appuntite del suo cane che cerca di grattare il marciapiede per sotterrare un cranio, il cappello pieno di monetine. Il lampione ancora spento, sull’estremità a forma di amo gigante c’è un angelo impiccato con un cartello al collo che dice: RIAPRITE I MANICOMI. Gli hanno fregato anche le scarpe. Poi eccole, le sirene: le volanti della polizia, i carabinieri e dietro un’ambulanza che si affanna a tenere il passo, spingendo i suoi larghi fianchi nel traffico. Inchiodano davanti all’ingresso del nostro palazzo. Chiamo vicino a me Sara e mia madre, restiamo a guardare dalla finestra per qualche secondo. «Ci siamo. Andate a salutare vostro padre» sussurra mia madre. «Ma non svegliatelo, non ancora». Il Re sta ancora dormendo nel suo brodo di alcol. La varecchina rossa ha invaso casa, la marea è sempre più alta, tra poco vomiterà dalle finestre. Fisso le mani di mio padre, quella che si contrae come per sfiorare la pelle di qualcosa, per riconoscerne i lineamenti, e l’altra che tiene ancora stretto il coltello. Gli poggio una mano sul cuore, premo sulla canottiera per qualche secondo. Lo sento. Il suo eco forsennato mi rimbalza dentro. Sara e mia madre, in fila dietro di me, lo baciano sulla fronte. Lascio la mia testa vicino a lui, sul bordo del letto. Poi ci mettiamo tutti in un angolo ad aspettare. Sfondano la porta, sono in sei, coi giubbotti antiproiettile e le armi spianate. Nel corridoio scorrono voci e grida che spaccano le ossa di tutto quel silenzio. C’è chi controlla la cucina, chi il bagno e il soggiorno, mentre due di loro prendono a calci, con pesanti anfibi da guerra, il materasso dove dorme il Re. Mio padre si sveglia di soprassalto, balza in piedi col coltello ancora stretto in mano e gli occhi rossi, spalancati, che sembrano i fanali posteriori di un camion. Scivola su una bottiglia di Jameson e cade col muso sul pavimento, trascinando con sé le lenzuola zuppe di sangue e la mia testa che rotola fino alla porta. Gli ficcano in bocca una calibro 9, il tempo di ammanettarlo. Uno di loro, con un ghigno infernale e due baffi a manubrio, quello che ha aperto il frigorifero e ha trovato la mia lingua e tutto il resto, si avvicina all’orecchio del Re e gli sussurra, sibilando come un rettile dalla saliva avvelenata: «Ti sei divertito a farli tutti a pezzi, vero gran figlio di puttana? Prima di metterti dentro e buttare la chiave ti faremo un bel servizietto, in caserma». Come antipasto, prima di farlo trascinare via, gli molla un paio di calci nelle palle, facendogli sputare i denti d’oro e saltare via la corona dalla testa. Il Re non si è sognato quel macabro mattatoio, ci ha ficcato davvero le mani, in quella carne. Ha perfino spezzato la lama del coltello, per la furia. E ora sembra stupito di aver fatto tanto, delle sue stesse vertigini. «Non guardate. E non fate rumore, mi raccomando. Non ancora», si raccomanda mia madre. L’uomo con l’impermeabile nero, l’ultimo a lasciare la stanza, si volta verso di noi e si avvicina all’angolo dove ci siamo raccolti, dove le ombre ora fioriscono dense. Forse ci ha sentiti. Annusa l’aria, sembra incerto sul da farsi, ma poi sputa per terra, dice «Cazzo!» e se ne va. Osservo i nostri corpi, e i miei vari pezzi, passare veloci nel corridoio dentro sacchi neri, pronti per l’obitorio. Erano passati due anni da quando mio padre aveva perso il lavoro, da quando noi eravamo diventati delle schegge di vetro ficcate nel suo cervello. Due anni che non riusciva più a dormire, prima di oggi. «Ora dobbiamo andare», dice mia madre senza più sussurrare, tirandomi per il braccio. La luce blu entra in casa, fa freddo. Le nostre due ore da fantasmi sono finite.
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